mercoledì 13 maggio 2009

Come costruire il capitalismo sociale

TIMOTHY GARTON ASH La Repubblica 13.05.09

COSA vogliamo che venga fuori dalla più grave crisi del capitalismo da settant’anni a questa parte? Se dovessi condensare la risposta in un’espressione direi: nuovi modelli per un’economia di mercato sociale sostenibile.

MA bisogna che cambiamo noi e che cambino i nostri stati. Il capitalismo non finirà nel 2009, come finì il comunismo nel 1989. Ha radici troppo profonde, è troppo eterogeneo e troppo flessibile per patire una morte così improvvisa. Il capitalismo ha ben più varianti nel mondo di oggi di quante mai ne abbia avute il comunismo, e questa varietà è una delle sue forze. L’arcobaleno va dal selvaggio ovest al selvaggio est e si allarga a importanti varianti nazionali dell’economia di mercato, pensiamo alla Cina, che secondo i puristi non si identificano affatto con il capitalismo. Così certe versioni del capitalismo resisteranno alla tempesta, altre ne usciranno a pezzi o quanto meno trasformate in maniera assai sostanziale.

É probabile che a quest’ultima categoria appartenga l’estrema variante “neoliberale” dell’economia del libero mercato, caratterizzata non solo da una vasta deregulation e privatizzazione ma anche da un’etica alla Gordon Gekko, che esalta l’avidità, pienamente realizzata nella pratica solo in alcune aree delle economie anglosassoni e post-comuniste. Che ne direste invece di una versione modernizzata, riformata, della “economia di mercato sociale”, espressione coniata in Germania nel dopoguerra? Pur restando assolutamente un’economia di libero mercato, questo modello richiede da parte dello stato la creazione di un forte quadro giuridico e normativo per l’impresa privata, per il coinvolgimento dei portatori di interesse nonché degli azionisti, il tentativo di equilibrare riflessioni a lungo e breve termine in seno al processo decisionale economico, l’impegno nazionale a garantire un minimo sociale a tutti i cittadini e un forte ethos morale tra chi è coinvolto in attività finanziarie. A tutto ciò vanno associate le istanze di sostenibilità ambientale, a fronte del cambiamento climatico, e sostenibilità etica a fronte della povertà globale, tipiche del ventunesimo secolo. Impresa ardua, senza dubbio.

I grandi guadagni dei capitalisti vengono tradizionalmente giustificati in base al rischio che si assumono, ma in questo caso non l’hanno neppure assunto. Il rischio era sulle nostre spalle. Quando la bolla è scoppiata il conto è andato ai contribuenti e noi e i nostri figli lo pagheremo per decenni a venire. Vicino a dove abito io a Oxford hanno restaurato grandi dimore vittoriane senza badare a spese ad uso unifamiliare. Un anno fa le guardavo con sarcasmo e stupore, ma ingenuamente davo per scontato che i nuovi proprietari, si fossero guadagnati, nel vero senso della parola, quello stile di vita neo-aristocratico. Oggi le guardo con uno stato d’animo prossimo alla rabbia.

Un mio amico che ha passato la vita a studiare le economie più povere del mondo sostiene che la condotta folle ed egoista di quei banchieri dovrebbe avere a loro carico conseguenze legali. Dovrebbe esistere, dice, un reato bancario paragonabile all’omicidio colposo, nel senso che non sia necessario dimostrarne la premeditazione.

Splendida idea, ma non attuabile in pratica, credo, e in fin dei conti neppure auspicabile, in quanto violerebbe il fondamentale principio giuridico secondo cui costituisce reato solo un azione che era illegale nel momento in cui è stata commessa.

Credo però chei diretti responsabili, come Sir Fred Goodwin della Royal Bank of Scotland, dovrebbero restituire parte dei loro guadagni personali eccessivi e immeritati. E altri dovrebbero reimmettere nella società, fosse solo in forma filantropica, più di quanto realmente le hanno sottratto.

Ma non si può dar loro tutta la colpa. Parte della responsabilità ricade sui britannici e gli americani qualunque che hanno speso soldi che non avevano incoraggiati dall’impennata dei prezzi delle case, dai mutui facili e sedotti dalle pubblicità. Lo stesso, strano a dirsi, vale per i frugalissimi cinesi i cui ingenti risparmi sono stati riciclati per consentire - addirittura incoraggiare indirettamente - lo spreco occidentale.

Più di trent’anni fa Daniel Bell nel suo “Le contraddizioni culturali del capitalismo” indagò un paradosso: la dinamicità del capitalismo dipende dal fatto che gli individui improntano la loro vita personale di produttori e consumatori a valori in qualche modo diversi. Ampliando la famosa tesi di Max Weber circa l’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Bell sostiene che nel ruolo di produttori gli individui aderiscono a valori di riferimento come il duro lavoro, la puntualità, la disciplina e la disponibilità ad accettare una gratificazione differita. Nel ruolo di consumatori hanno un atteggiamento auto indulgente, espansivo, dedito alla ricerca del piacere e a vivere il presente. A questo aggiungiamo il nuovo paletto costituito dall’incapacità del pianeta di sostenere più di sei miliardi di persone con livelli di vita in costante crescita ottenuti tramite i metodi di produzione e consumo finora utilizzati. E complichiamo ulteriormente la questione introducendo la tesi morale secondo cui i ricchi non hanno il diritto di negare ai poveri del mondo una vita materiale migliore che equivarrebbe comunque a una minima parte dell’agiatezza di cui godiamo noi.

Ci ritroviamo di fronte non solo a un enigma che riguarda i sistemi ma anche a una sfida che coinvolge personalmente ciascuno di noi. Si tratta di trovare un nuovo equilibrio nella nostra doppia vita di produttori e consumatori, contribuendo al contempo in maniera consapevole ad un più ampio insieme di nuovi equilibri internazionali tra economia e ambiente, tra il risparmio esagerato dell’est e la spesa esagerata dell’ovest, la ricchezza del nord e la povertà del sud. L’economia di mercato sociale sostenibile nella mia accezione è anche questo. www.timothygartonash.com (traduzione di Emilia Benghi) TIMOTHY GARTON ASH