mercoledì 17 febbraio 2010

“Una guida per orientarsi nel mondo dell’impresa” di Barbara Costantini Rivista Econerre, no. dicembre 2009

Un’occasione di arricchimento, professionale e personale, oltre che di confronto di esperienze attraverso le testimonianze di alcuni tra i più autorevoli esponenti internazionali dell’economia e del management. È la consolidata modalità formativa del Programma internazionale di sviluppo delle competenze economiche e manageriali, organizzato dal Ctc (Centro di formazione manageriale e gestione d’impresa della Camera di commerciodi Bologna) che nel 2009 ha tagliato il traguardo dell’ottava edizione.

Sono stati sei gli incontri che hanno permesso a manager, che svolgono la propria attività professionale nell’ambito della direzione aziendale e della gestione delle risorse umane, di ascoltare alcuni tra i più noti esperti della cultura d’impresa sulle dinamiche economiche, organizzative e gestionali supportate dalle scienze manageriali: Carlos Salum ha illustrato le modalità per strutturare una prestazione eccellente attraverso il modello “Top peak performance”, David Croson ha dato un’occasione per riflettere sulle strategie di management per la competitività aziendale, mentre Douglas Anderson ha approfondito i legami tra leadership e cambiamento negli scenari critici. La Motivazione e automotivazione manageriale sono stati i temi del seminario di Robert Dilts, mentre Jan Ardui ha esaminato il coaching per ottenere il meglio da sé e dai collaboratori. Infine, la lectio magistralis di Robert Solow, Premio Nobel 1987 per l’Economia ha concluso il ciclo.

Robert Dilts

“Anche il manager deve essere un leader”

Diverso l’approccio e il tema trattato da Robert Dilts che richiama l’attenzione sul fatto che, nel business e nelle organizzazioni, la leadership viene spesso contrapposta al management: il secondo viene inteso come “la realizzazione di cose attraverso gli altri”, mentre la prima viene definita come “la modalità per la quale gli altri desiderano realizzare le cose”; risulta evidente come la leadership sia connessa al motivare e influenzare gli altri, ossia le persone al lavoro.

Se il management viene solitamente associato all’aumento di produttività, al mantenere l’ordine e la stabilità, la leadership diventa necessaria quando i tempi sono caratterizzati da turbolenza, trasformazioni sociali e cambiamenti in genere, come la fase che stiamo attraversando.

Diventa allora strategico, “essere proattivi nella gestione del cambiamento, tenendo in considerazione i diversi livelli (interni/esterni) dei fattori coinvolti nel processo, quindi nella motivazione: ambiente (minacce/opportunità che i singoli e le organizzazioni devono riconoscere); comportamenti (specifiche azioni rivolte al risultato); capacità (mappe mentali e strategie per ottenere i risultati); convinzioni e valori (supportano o inibiscono le capacità e le azioni); identità (legata al senso che ciascuno di noi ha del proprio ruolo o missione (vedi ad esempio i concetti di “ego” e “anima”); spiritualità (legata alla visione delle persone circa il “sistema” più ampio di cui fanno parte.

Robert Dilts definisce la motivazione come quell’investimento di energia e azione che prende la forma di mostrare con passione il proprio coinvolgimento: provare piacere nel fare le cose, fare del proprio meglio. Un aspetto chiave della motivazione è l’abilità di avere un “riferimento interno”, ossia quel processo per cui una persona utilizza i sentimenti più profondi, le rappresentazioni e i criteri personali come fonte primaria delle proprie azioni e per valutare il successo delle stesse: è così che ci auto-motiviamo e assumiamo la responsabilità del nostro comportamento. Fra i fattori indicati, le convinzioni e i valori “sono i principali motori della motivazione e sono inoltre espressione della nostra identità, sia come individui che come organizzazioni”. L’identità per Dilts “può essere vista nei suoi due aspetti complementari: l’ego e l’anima. L’ego è orientato alla sopravvivenza, al riconoscimento e all’ambizione, l’anima si muove verso l’obiettivo più ampio, l’essere e il contribuire”.

Entrambe le forze devono essere integrate fra loro; la dinamica fra le due agisce in modo similare nelle organizzazioni. L’ “ego” di un’impresa è rappresentato dagli azionisti, la cui preoccupazione è rivolta principalmente alla sopravvivenza e profittabilità: ciò si riflette nell’ambizione dell’organizzazione e dei suoi membri in termini di status e livelli di performance. L’ “anima” è il valore che l’organizzazione offre ai clienti e al più ampio ambiente fisico e sociale in cui è situata: questo viene creato dalla visione, dal contributo unico e dalla missione relativamente ai sistemi in cui l’organizzazione è inclusa.

Quali sono, secondo il trainer americano specializzato nel campo della programmazione neuro-linguistica, le convinzioni di base necessarie per il successo e quindi per un cambiamento anche in tempi di crisi? “Essere convinti che l’obiettivo è desiderabile e utile, che è possibile raggiungerlo, che le azioni necessarie sono appropriate ed ecologiche, che abbiamo le capacità per ottenere l’obiettivo, insieme alla responsabilità e al fatto di meritare il successo”. L’ulteriore passaggio fondamentale sottolineato da Dilts – a cui forse i manager sono poco abituati – è quello di verificare sempre, come griglia di autovalutazione, se le convinzioni personali – e quindi il cambiamento auspicabile – vedano uniti “testa, cuore e pancia”.

Jan Ardui

“Quel filo sottile che lega eccellenza e debolezza”

Jan Ardui, psicoterapeuta della Gestalt e trainer internazionale di programmazione neuro-linguistica, ha mandato un messaggio forte: “Conoscere il meglio di sé e degli altri significa sapere i limiti e i punti critici, perché eccellenza e debolezza sono in relazione”. Durante un lavoro di consulenza alla Hewlett Packard – svolto nell’arco di quattro anni – il consulente belga ha osservato e analizzato le modalità di cinque top manager (uomini e donne), sia nel lavoro che in ambito personale, per trovare un modello (pattern) e un legame che li unisca.

Che cos’hanno in comune queste persone eccellenti? Secondo Ardui, innanzitutto sono capaci di combinare due elementi apparentemente scissi: disciplina nel management e un incredibile bisogno di libertà; in un certo senso utilizzano anche i loro punti deboli nel ruolo che ricoprono.

L’idea sottostante è che se mostro le debolezze, evito di sprecare energie importanti nell’atto di nasconderle; questi manager trasformano il ruolo in relazione a se stessi e non viceversa, quindi sono coerenti: quanto di me è coinvolto nel mio ruolo?” Ecco allora che viene chiarito il concetto di mediocrità come quel livello in cui “non si fa la differenza” – né come persona né come manager – perché non si consente il fallimento; perciò se non sopporto di fallire, resterò nella mediocrità”. Il coaching, insegna Ardui, “è un processo che aiuta a mettere in luce le qualità e le debolezze di una persona, per poi sostenerla nell’utilizzare tutto ciò che essa è, anche nel ruolo professionale”. La sfida per il coach è creare quello spazio in cui dare al cliente (spesso un manager) la possibilità di fallire: se non so gestire il mio fallimento, non saprò farlo con quello degli altri (i collaboratori) o, addirittura, non lo riconoscerò come tale.

Ardui – sempre alla luce della sua esperienza come coach e consulente- indica quindi quattro direttrici alla base dei livelli di eccellenza: libertà vs. disciplina, performance vs. allineamento. Quest’ultimo è rappresentato da una sorta di coerenza fra “chi sono io” e “chi posso essere”. Viene inoltre sottolineato come l’impegno costante in termini di studio e applicazione rimanga fondamentale affinché il modello regga e le persone siano eccellenti.

Come tenere insieme quanto detto con le sfide attuali che vengono da un ambiente così mutevole? La risposta sta nel riuscire a creare, da parte del manager-coach, un ambiente in cui sia possibile apprendere, utilizzando diverse tipologie di feedback: riflessivo (osservo cosa è presente, “vedo” chi sono realmente i miei collaboratori), positivo (supporto e riconosco le azioni di successo) e infine negativo (devo avere il coraggio di fare critiche se qualcosa è andato storto, facendo attenzione a non screditare l’identità della persona, ma basandomi sull’operato). La frase chiave riassuntiva di un manager- coach potrebbe essere “so chi sei, ti vedo e ti sfido nella tua performance”. Jan Ardui rileva che il processo di coaching consiste essenzialmente proprio nel dare i feedback menzionati: il punto è che -anche in Italia- tutti parlano di feedback, ma nessuno li dà!

lunedì 8 febbraio 2010

Repubblica 8.2.10 Quando sognavamo Giustizia e Libertà di Beniamino Placido


Carissima Barbara, ho voglia di raccontarti tantissime cose (due o tre almeno) ma non so da che parte incominciare. Comincerò allora con un fatto antico, antichissimo, quasi un episodio d´infanzia: che potrebbe, dovrebbe (vorrebbe?) commuoverti.
Nei primissimi anni del dopoguerra c´era in Italia una cosa bellissima: il Partito d´Azione. In Lucania l´aveva fondato zio Valentino, con altri giovani antifascisti. Altri antifascisti – giovani o meno giovani – l´avevano fondato in tutta Italia. Il Partito d´Azione veniva fuori da una tradizione degnissima. Dal gruppo di "Giustizia e Libertà"; che era stato fondato da Carlo e Nello Rosselli, due meravigliosi antifascisti fiorentini, che il Fascismo aveva fatto uccidere: esuli in Francia. Il Partito d´Azione è stato l´unico gruppo politico organizzato a fare del vero attivo antifascismo, durante il ventennio, accanto al Pci. I suoi rappresentati avevano fondato il Non Mollare, quando tutti mollavano. Poi andarono, uno dopo l´altro, in galera e ci rimasero per un bel po´. Ernesto Rossi, l´economista ( autore di Abolire la miseria; I padroni del vapore, Settimo non rubare) anche per tredici anni di fila.
Chi ha fatto la resistenza? Due gruppi politici: i comunisti e gli "azionisti" (che venivano anche chiamati sprezzantemente "visipallidi" perché non avevano la faccia contenta e biscottata alla Berlusconi). In che cosa gli "azionisti" erano diversi dai comunisti? In questo: volevano la Giustizia, ma volevano anche la Libertà.
Benedetto Croce diceva che non era possibile. Che se tu vuoi proprio la Giustizia, l´Uguaglianza, finirai fatalmente col rinunciare alla libertà. Farai la fine della Russia di Stalin. Gli "azionisti" erano fermamente avversi alla Russia di Stalin. Mai, neppure per un momento, cedettero alle fiabesche sciocchezze che sulla Russia comunista i comunisti italiani allora dicevano. E che si sono dimostrate sanguinosamente false.
Questo li rendeva invisi a Dio ed ai nimici sui. Ai conservatori come ai comunisti ortodossi (con i quali conservarono però sempre un rapporto di affettuosa, rissosa familiarità). Nel Partito d´Azione militavano tutti (o quasi tutti) gli intellettuali italiani di quegli anni. Quelli grandi, di cui non ti faccio i nomi perché non ti direbbero nulla (De Ruggiero, Omodeo, Arturo Carlo Jemolo, Calamandrei, Codignola) e tanti altri più piccoli. Anche per questo, anche per questo prestigio, il Partito d´Azione ebbe subito fortuna, in tutto il Paese. Che aveva contribuito a liberare dai fascisti e dai nazisti.
Pensa che a Rionero, paesino di dodicimila abitanti, la sezione fondata da zio Valentino contava seicento iscritti. Poi cosa accadde? Accadde che questi intellettuali si misero a litigare fra di loro. Arrivò la scissione, consumata in un dolorosissimo, drammaticissimo congresso a Roma, al Teatro Italia (che si trova intorno a Piazza Bologna).
Il Partito d´Azione si sciolse. I suoi rappresentati più bravi si distribuirono tra i vari partiti della sinistra italiana. E vi hanno fatto le cose migliori. Cosa sarebbe stato il Partito Repubblicano italiano senza Ugo La Malfa? Cosa sarebbe stato il Partito Socialista italiano (quello di Nenni, non quello attuale di Craxi) senza Riccardo Lombardi? E questi nomi forse ancora dicono qualcosa (spero) a quelli della tua generazione.
Il Partito d´Azione si sciolse, ma non si dissolsero nel nulla i suoi componenti: anche quelli più piccoli, in ogni senso. Continuarono ad operare nella società civile, dentro e fuori i partiti, dentro e fuori le Università, dentro e fuori i sindacati. Mai rassegnandosi all´ondata di restaurazione che intanto era arrivata. La prima delle tante ondate di restaurazione che di tanto in tanto affliggono il nostro Paese. Ondata di restaurazione propiziata da un enorme imperdonabile errore del Partito comunista di allora: presentandosi come paladino della Russia di Stalin – che aveva impiccato abbondantemente, che continuava ad impiccare allegramente – i comunisti resero più agevole l´inondazione democristiana del 18 aprile 1948. Inondazione che perdura; dalla quale cerchiamo faticosamente di riemergere.
Fra quegli "azionisti" c´era anche il tuo papà: piccolo, piccolissimo allora; piccolo, piccolissimo sempre. E che non ha mai dimenticato quel giorno lontano. Quando la notizia ufficiale dello scioglimento arrivò. Quando la sezione del Partito d´Azione di Rionero fu chiusa. Quando quelle bandiere gloriose, ardimentose (le bandiere del Partito d´Azione erano rosse, con lo stemma di G. iustizia e L. ibertà) nel mezzo: gli azionisti si chiamavano "compagni") si ammonticchiarono nel cortile della nonna: dove erano state portate amorosamente da zio Valentino. E poi furono mandate al macero. Mai dimenticato.
Perché morì il Partito d´Azione? Ce lo si è chiesto molte volte. Dedicò all´interrogativo le sue riflessioni Palmiro Togliatti. Forse abbiamo una spiegazione. Che potrebbe interessare l´antropologo. Morì perché terribilmente astratto. Composto da intellettuali, aveva l´intellettualistica convinzione che gli uomini fossero fatti di sola razionalità. E che quindi bastasse fare appello alla loro ragione per convincerli a votare. Gli uomini (tutti gli uomini e tutte le donne: anche noi, non solo "gli altri") sono fatti anche di miti, di pulsioni profonde e inconfessabili, di ambizioni, di interessi. In una cosa invece il Partito d´Azione aveva ragione. Così come «non si fa la poesia con i sentimenti, ma con le parole» (l´ha detto Paul Valery) non si costruisce la società giusta con i sentimenti, siano pure i più nobili, ma con le articolazioni istituzionali.
Ed è questo che avrei voluto dire agli studenti dell´Università di Roma; è questo che vorrei dire a tutti coloro che stanno dentro a questo dibattito sulla nuova sinistra da costruire: a quelli del no, a quelli del sì, a quelli del forse. Lo avrei detto – tanto per cambiare – nella forma di un raccontino. Che si riferisce anch´esso – tanto per non cambiare – alla mia "infanzia" lucana. Il racconto ha una premessa. La seguente. Non è che sia venuta meno in noi la voglia di volare. Negli "azionisti" non viene mai meno. E adesso tu sai che tuo padre è un "azionista": non nel senso finanziario del termine, fortunatamente. No, la voglia di volare alto, di non strisciare per terra, di non vegetare, è sempre quella. Ma come si fa a volare? Quand´eravamo ragazzi, a Potenza, ci pensavamo sempre, talvolta ne parlavamo. Una volta, passeggiando passeggiando, ci trovammo sul ponte di Montereale, che è altissimo e maestoso. Uno di noi, che si chiamava Brucoli – e quindi era della dinastia dei gelatai di Potenza, e quindi apparteneva alla buona società potentina – ad un certo punto si affacciò dalla spalletta del ponte, guardò in giù (cinque metri di altezza). Poi prese il suo bastone – si poteva permettere di andare in giro con un bel bastone liberty fra le mani – e lo buttò. Poi chiese a noi – che con lui ci eravamo affacciati a guardare nella valle sottostante – ha volato il mio bastone? Si è fatto forse male? E allora volerò anch´io. Si buttò giù, e si ruppe tutte e due le gambe.
La voglia di volare – generosa e legittima – che animava i comunisti classici, che anima oggi alcuni gruppi di studenti, rassomiglia a questa. Non porta da nessuna parte. Solo ai disastri, personali o collettivi. Abbiamo imparato poi a volare. Ma rispettando le leggi di gravità, non violandole. Ma rassegnandoci ad essere – paradossalmente – più pesanti dell´aria, senza illuderci di poter mai diventare più leggeri. Ma costruendoci dei dispositivi artificiali e complessi: estremamente artificiali, estremamente complessi. Che non ci danno la soddisfazione del volo umano, ma ci fanno andare per aria, a rispettabile velocità.
E non è questa la civiltà, non è questo il progresso? La civiltà è una continua costruzione di protesi, un assiduo artigianato ortopedico. Per correggere l´inuguaglianza di partenza nel senso dell´uguaglianza; per correggere le ingiustizie di base nel senso della giustizia. Non ci si può aspettare che la libertà di stampa arrivi solo perché da qualche parte qualcuno si illude di aver costruito, o trovato, o inventato l´"uomo nuovo". Solo perché è stato eliminato il capitalismo. Come pensavano i comunisti dell´altro ieri. Come pensavano quegli studenti di ieri. Questo vale a maggior ragione per la libertà di stampa: che si costruisce – e si custodisce – non con gli esorcismi verbali all´indirizzo del capitalismo, ma con un artigianale lavoro di revisione delle leggi. Tenendo conto di resistenze, inerzie, interessi, eccetera.

Cara Barbara, non sono sicuro che questi uomini di sinistra del "forse" siano migliori di quelli del "sì", e di quelli del "no". Però sono la mia cultura, la mia biografia, la mia storia, hanno qualcosa del vecchio (e mai morto) spirito azionista. Provarci sempre, non cedere mai. Senza paura di fare. Senza paura di sbagliare.
Un abbraccio
dal tuo papà
Roma, domenica 11 febbraio 1990