martedì 3 giugno 2008

Zagrebelsky: La democrazia ha ancora bisogno di maestri (La Repubb/26maggio 08)

di G. Zagrebelsky

In questo nostro tempo, dove sono i maestri e chi, nella vita civile, userebbe questa parola senza almeno una punta d’ironia, se non anche di dileggio? Maître sopravvive senza discredito in francese, nel settore culinario, alberghiero e forense, mentre il femminile, maîtresse, sembra un residuo di romanzo ottocentesco. Il maître de conférence è semplicemente un aiutante del professore che svolge quelle che noi avremmo definito un tempo “esercitazioni”, prima di diventare agrégé. Ma chi si lascerebbe oggi definire impunemente maître à penser, espressione che suona pretenziosa e gonfia, allo stesso modo di “maestro di vita”? Meister, che richiama tempi andati di corti principesche e domestici alle dipendenze (i Kappelmeister), oppure gilde e congreghe medievali (i Meistersinger wagneriani, ad esempio), è da tempo fuori uso, come lo sono i mondi cui allude.
Il “gran maestro” delle logge massoniche o degli ordini cavallereschi appartiene a piccole cerchie iniziatiche e, da queste, non esce facilmente all’aria aperta.
I tempi sono cambiati. Il “magister” che insegnava nelle aule universitarie è diventato il professore, un termine di per sé maestoso, ma ormai totalmente volgarizzato come equivalente a insegnante. Residua il maestro elementare, con l’iniziale minuscola, e questa sopravvivenza meriterebbe un esame, prima che una qualche circolare ministeriale lo faccia sparire, sostituendolo con “operatore” di qualche cosa. In generale, però, possiamo dire che i maestri si sono ritirati dalla vita civile pubblica. Se vi faranno ritorno, sarà perché saremo entrati in un’epoca diversa dalla nostra e perché avremo fatto un ripensamento su noi stessi.
George Steiner, nei saggi raccolti sotto il titolo La lezione dei maestri (Garzanti, 2004) ha messo in guardia circa i pericoli che questa parola, il maestro - monumentale, gerarchica, prescrittiva - porta in sé. Il pericolo maggiore consiste nel viluppo del rapporto maestro-discepolo in vischiosità sentimentali. Il desiderio del maestro di piacere al discepolo, di “sedurlo” con la sua personalità, un desiderio che può portare allo schiacciamento di quella di quest’ultimo; il desiderio del discepolo, a sua volta, di primeggiare, di essere il più vicino al suo cuore, di oscurare o annullare tutti gli altri. (…)
Le degenerazioni dei rapporti interni alle “scuole”, che possono portare ad altrimenti impensabili meschinità, sono ben note. Il mondo accademico ne è una miniera. Ne traggo solo un piccolo esempio, dal mio campo di studi. Il grande giurista Hans Kelsen, nella sua Autobiografia (in Scritti autobiografici, a cura di M. G. Losano, Diabasis, 2008) riferisce del suo incontro a Heidelberg con Georg Jellinek, certo uno dei massimi “maestri” del diritto pubblico a cavallo tra il XIX e il XX secolo e lo racconta così: Jellinek “era circondato da un impenetrabile gruppo di allievi adoranti, che lusingavano in modo incredibile la sua vanità. Ricordo ancora la relazione di uno dei suoi studenti preferiti, costituita quasi esclusivamente da citazioni degli scritti dello stesso Jellinek. Dopo quella riunione potei accompagnare Jellinek a casa e, cammin facendo, mi chiese che cosa ne pensavo di quella relazione. Io rimasi molto sulle mie e Jellinek ne fu visibilmente irritato. Affermò che era stata una relazione eccellente e predisse un grande futuro accademico al suo autore: ma questi – aggiunge Kelsen maliziosamente - nel corso della sua carriera accademica, ha prodotto soltanto pochi scritti mediocri”.
Ecco un rischio di questo rapporto malato, la mediocrità all’ombra della megalomania. Quello citato è solo un piccolo episodio di miseria accademica. Ma, spostandoci ad altro campo, il campo del magistero politico, il quadro, da ridicolo può farsi tragico. Il rapporto fideistico col maestro, depositario di una verità ch’egli solo conosce, può condurre a tragedie che annullano la personalità dei deboli e conducono perfino all´omicidio. (…)
La radice di queste degenerazioni sta nel rapporto meramente bilaterale tra il maestro e il discepolo. Se non è filtrato, reso oggettivo da un terzo fattore comune, esso finisce per ridursi a una relazione personale ineguale di fedeltà, in cui tutte le deviazioni irrazionalistiche diventano possibili, e, soprattutto, si viene perdendo di vista il fine in vista del quale tale rapporto ha ragione di instaurarsi: la ricerca di qualcosa che sta fuori tanto del maestro quanto del discepolo. Se manca questo elemento, la persona del maestro diventa l’oggetto dell’attaccamento del discepolo e la persona del discepolo diventa l’oggetto dell’attenzione del maestro. L’amore della verità – usiamo questa parola con la minuscola – viene a essere sostituito dall’autocompiacimento dell’uno attraverso l’altro, cioè da manifestazioni di narcisismo. (…)
Il maestro è ridicolmente anacronistico. Sembra non essercene bisogno, sembra anzi un ingombro nella società egualitaria dei grandi numeri, propria del nostro tempo, che propone bensì modelli di successo, ma, per così dire, di successo applicativo, non creativo. La via del perfezionamento personale, della conoscenza, della sperimentazione e della consapevolezza, e quindi anche della critica e della ribellione, la via che indicano i Maestri, non è confacente a questa società. (…)
Questa società non ha dunque bisogno di maestri. Sono pateticamente inutili. I mezzi attraverso cui si trasmettono conoscenze e si formano coscienze si chiamano maestra-televisione, maestra-pubblicità, maestra-comunicazione, maestra-moda, ecc. Queste sì sono maestre ugualitarie, stanno sul nostro stesso piano, usano il nostro stesso linguaggio, si prestano a essere comprese da tutti senza sforzi, sono adatte alla società dei grandi numeri, sono perciò pienamente democratiche. Che c´è di meglio? (…)
E invece no. Le cose non stanno affatto così. Non si tratta di aristocrazia contro democrazia, ma di due concezioni della democrazia, l’una in opposizione all’altra. L’una, la potremmo definire democrazia critica; l’altra, acritica. La democrazia critica pone se stessa sempre necessariamente in discussione, non è mai paga e tronfia, sa riconoscere i suoi limiti e sa correggere i suoi sbagli. È un sistema capace di auto-correzione, in vista di un bene o di una verità non assoluti ma relativi al momento e alle condizioni date e alle capacità ch’esso ha di padroneggiarle. Il suo senso è dato da questa tensione, tra ciò che si è e ciò che, in meglio, si potrebbe essere; il suo ethos, la molla che lo mette in movimento, è l’esigenza di colmare questa distanza.
La democrazia critica non assume, come sua massima, il detto vox populi, vox dei, per l’implicita supposizione di infallibilità ch’essa comporta. Considera un cedimento a un’inaccettabile ideologia della democrazia anche l’espressione, spesso ripetuta con leggerezza, secondo cui la maggioranza ha sempre ragione, e ciò non perché la maggioranza abbia presumibilmente torto, come ritiene ogni pensiero antidemocratico ed elitario che divide la società in migliori (i pochi) e peggiori (i tanti), ma perché semplicemente, nella democrazia critica è bandito il concetto stesso di ragione, contrapposto a torto. La maggioranza non ha né ragione né torto; ha invece diritto di decidere perché si ritiene che le decisioni che riguardano tutti siano assunte, se non da tutti, almeno dal maggior numero. È una questione di distribuzione e assunzione di responsabilità, non di ragione o di torto.
Questo modo di concepire la democrazia comporta la capacità di estraniarci da noi stessi, di uscire dalla nostra pelle per poterci osservare per quello che siamo e confrontarci con quello che non siamo e vorremmo essere. Essere al tempo stesso soggetto e oggetto, cioè la coscienza di se stessi, è forse ciò che di più difficile possiamo immaginare, nella vita individuale e, a maggior ragione, in quella collettiva. Quando si dice “la lezione dei maestri”, si dice innanzitutto distanza tra noi, come soggetti, e noi, come oggetti, cioè coscienza critica. La funzione del maestro, nella democrazia critica, non è un lusso, è una necessità vitale.
Tutto il contrario, nella democrazia acritica. Se la maggioranza ha sempre ragione, se la sua volontà è infallibile come quella divina, la voce ammonitrice del maestro è semplicemente un inutile fastidio, come quella del grillo parlante che Pinocchio, che non vuol sentir parola, schiaccia con un colpo di martello. Non c’è bisogno di maestri in questa democrazia, ma di ideologi, di comunicatori, di propagandisti o di pubblicitari, cioè di quelle false maestre (televisione, pubblicità, moda, ecc.) di cui s’è detto. Esse non creano tensione, allontanano da noi l’inquietudine del dubbio, ci fanno credere che ciò che siamo sia anche ciò che non possiamo non essere, che dove siamo non possiamo non essere. Ci fanno stare in pace con noi stessi, perché ci privano della coscienza di noi stessi e ci trasformano da soggetti in oggetti.
I maestri non esistono se non ci sono discepoli. Non sono i maestri a creare i discepoli, ma i discepoli a creare i maestri. Quando tra noi, potenziali discepoli, incominciano a porsi domande di senso ed esigenze di ethos, allora possono comparire i maestri. Questo – porre domande inevase e far valere esigenze insoddisfatte - è il compito di chi crede che valga la pena di impegnarsi per una democrazia con gli occhi aperti su se stessa e sul suo futuro, cioè per una forma di convivenza che coltivi l’inquietudine non come un vizio, ma come una virtù.
Abbiamo di fronte a noi degrado della vita pubblica, deterioramento della democrazia, inquietudine senza sbocco per l’avvenire e incapacità generalizzata di indicare prospettive diverse dal tirare in qualche modo a campare per allontanare soltanto il momento di una crisi che, non possiamo non saperlo, prima o poi verrà. In quel momento, la presenza o l’assenza di un magistero civile

Tito Boeri. A che punto è l'economia in Italia

...anche secondo il mio sussurrato parere, la via della consapevolezza inizia con il porsi domande, soprattutto da parte di chi ricopre ruoli "decisionali"....il viaggio è il viaggiatore, anche economico...

JOHN LLOYD: IL MERCATO È INDISPENSABILE ALL’INFORMAZIONE MA L’INFORMAZIONE È INDISPENSABILE ALLA DEMOCRAZIA

02/06/2008
L’editorialista del Financial Times introdotto da Dario Laruffa - Festival Economia 2008

Lasciare decidere ai lettori può significare dare la priorità alle ricette di cucina. Internet non può sostituire il giornalismo qualificato.
Il mercato è indispensabile all’informazione, anche perché l’informazione nasce con il mercato. Però ci sono dei problemi, che riguardano i giornalisti e nell’era di internet, della pay-tv, della free press, o più banalmente dell’audience anche tutti i cittadini: pensiamo ai produttori “informali” di informazioni, che mettono i loro video on-line, o ai lettori e telespettatori che con le loro scelte quotidiane decidono in sostanza dello spazio che le testate dedicheranno ad Hezbollah e ai terremoti oppure alle ricette di cucina e al gossip. Queste alcune delle suggestioni raccolte stamani nel corso dell’incontro con John Lloyd, giornalista, editorialista del Financial Times, per molti anni corrispondente a Mosca, introdotto da un volto noto del Festival dell’Economia, il giornalista Rai Dario Laruffa.
Ed è stato proprio Laruffa, in apertura, a dare i dati aggiornati sul mercato dell’informazione in Italia. Innanzitutto: nonostante internet e le tv tematiche la televisione generalista “tiene”, eccome, la guardano l’85% degli italiani per almeno 4 ore al giorno. Neanche la radio se la passa male: l’ascoltano quotidianamente 38 milioni di italiani. Almeno il 42% della popolazione ha invece accesso ad internet, e secondo dati recentissimi questa percentuale avrebbe ormai superato il 50%; rimaniamo però al di sotto della media europea. A passarsela meno bene sono i giornali, ma anche qui con qualche distinguo: gli acquirenti sono 5,5 milioni al giorno, con un calo del 10% negli ultimi 7 anni (e una situazione disastrosa soprattutto al Sud). Ma al tempo stesso il 79% degli italiani sopra i 14 anni dice di leggere un quotidiano, a pagamento o su internet: ovvio pensare che il giornale passi di mano in mano, che per ogni copia venduta ci siano più lettori. A leggere poco i giornali quotidiani sono soprattutto i giovani - c’è una calo del 4% nella fascia fra i 18 e i 24 anni – e le donne, -20% di lettrici rispetto agli uomini: ma le lettrici compensano con i periodici.
In definitiva, quindi, per Laruffa oggi è possibile essere informati: semplicemente, molti non gradiscono esserlo.
John Lloyd – australiano di origine - ha iniziato la sua relazione dicendo di essere felice di essere in Italia il giorno della Repubblica: “Noi non abbiamo questa festa – ha aggiunto – perché non siamo una Repubblica (l’Australia è una monarchia costituzionale federale con a capo la regina d’Inghilterra ndr)”.
Venendo al tema del giorno, Lloyd ha detto non solo che se il giornalismo è libero allora anche il paese tende ad essere libero, ma che il mercato e la competizione, secondo i padri del pensiero liberale, come John Stuart Mills, fanno bene alla verità, perché laddove si confrontano due tesi, una vera e l’altra falsa, alla fine la prima prevale. Thomas Jefferson disse addirittura che avrebbe preferito farsi governare dai giornali che da un governo: era l’epoca in cui gli Stati Uniti cercavano di liberarsi dal giogo coloniale britannico, gli organi di informazione, di qualsiasi specie essi fossero, venivano visti come una fonte indispensabile di libertà e di democrazia.
Storicamente, ha aggiunto ancora Lloyd, pare che il giornalismo sia nato nella Venezia della fine del XVI secolo: e Venezia all’epoca era “il mercato del mondo” per eccellenza. Come dubitare quindi dell’importanza del mercato in questo campo?
In realtà, però, oggi si sono dei problemi. Innanzitutto, il ruolo del pubblico, dei lettori, perché è evidente che un giornalismo fondato sul mercato non possa prescindere dal gradimento che esso riscuote (e quindi dalle vendite). Ma le ultime esperienze di free press (stampa distribuita gratuitamente), che a loro volta si basano moltissimo su questo fattore, a volte anche con rilevazioni periodiche del gradimento dei lettori rispetto alle diverse notizie pubblicate, cosa ci mostrano? Che in realtà i lettori vogliono soprattutto ricette di cucina e annunci immobiliari, non notizie sul conflitto mediorientale o sulle catastrofi che si abbattono in aree remote del pianeta. Di conseguenza, anche le più prestigiose testate generaliste oggi entrano in crisi, chiudono le sedi estere, insomma perdono terreno; oppure si orientano verso settori – come gli annunci commerciali – che poco hanno a che fare con l’informazione così come la pensava Thomas Jefferson.
Ci sono però vari modi per non soggiacere alla legge del mercato e dei grandi numeri. Alcune volte la soluzione è rappresentata dalla stessa proprietà: che magari realizza utili in settori lontanissimi da quello dei media, ma decide comunque di continuare a pubblicare un giornale perché dà prestigio, salvo magari a cambiarne la natura, come fece Murdoch con il Times di Londra, trasformandolo da giornale dell’establishment a giornale dell’anti-establishment.
Ci sono poi altre strade: in Svezia, dove il mercato di per sé sarebbe troppo ristretto per consentire la sopravvivenza di testate di qualità, c’è una fondazione che pensa a questo. Negli Usa invece vi sono fondazioni che sostengono le università che formano i futuri giornalisti.
Venendo alle televisioni in particolare, di solito lo Stato ha sempre cercato di disciplinarne il mercato: la logica è che di emittenti ce n’erano poche, rispetto ad esempio ai giornali. Ma oggi le tv vanno anche su internet, e nei giornali trovi spesso allegati gli stessi film che passano le televisioni. Ha ancora senso, allora, un controllo pubblico? E se sì, in quali termini? Ed ancora: con internet gli stessi lettori sono diventati informatori. Lo si è visto nella recente catastrofe birmana: foto e informazioni sul ciclone e le sue vittime hanno scavalcato la censura del regime e sono dilagate nel mondo. Un problema – secondo Lloyd - è dato dal fatto che sempre di più l’interesse del pubblico si sposta dalla pura informazione al commento. E poi, chi si fa garante dell’enorme molle di informazioni o di opinioni che “navigano” a briglia scolta nell’oceano mediatico, se a monte non c’è un’azienda vera e propria – un giornale, una tv – che vaglia e decide? Come trasferire l’etica del servizio pubblico in internet?
Molti interrogativi rimangono aperti, dunque. Ma in definitiva l’importante è continuare a pensare che il giornalismo è una parte essenziale della democrazia.