martedì 28 dicembre 2010

I segreti della filosofia Kaizen

di Barbara Costantini Rivista Econerre 10-2010

Il quarto seminario del Programma Internazionale di Sviluppo delle Competenze Economiche e Manageriali ha permesso ai partecipanti di entrare in contatto con la filosofia Kaizen, ottimamente rappresentata dal suo pioniere e ormai ambasciatore nel mondo, Masaaki
Imai. Noto come “miglioramento continuo”, il Kaizen è un progetto a lungo termine o, con le parole del guru giapponese, “un lungo viaggio che non finisce mai”. Del resto Mr. Imai – con i suoi
ottant’anni – è l’esempio vivente di come ognuno di noi possa navigare nel proprio processo di crescita e miglioramento. Secondo la recente definizione di Kaizen, il miglioramento deve realizzarsi ogni giorno, riguardare tutto lo staff, avvenire in ogni luogo (ad esempio nei
diversi reparti quali R&S, produzione, ecc) e variare da piccoli cambiamenti incrementali a forti cambiamenti strategici. L’elemento cruciale affinché questa nuova modalità di gestione venga introdotta è il coinvolgimento, prima di tutto, del top management. Mr. Imai ricorda che è tipico dei manager dell’Occidente, quando pensano alle tre principali funzioni aziendali –
progettazione, produzione e vendite – disinteressarsi proprio della produzione
(“gemba”, in giapponese), mentre il Kaizen deve avere inizio qui, per costruire le fondamenta. Le bancarotte della General Motors e della Crysler sono state causate dal non aver studiato
a fondo le “operation” (gemba) e dall’essersi focalizzate solo sulla parte finanziaria. Il modello Kaizen – adottato già dagli anni quaranta dalla Toyota – è di tipo “pull”, ossia suggerisce di produrre solo ciò che è richiesto dal mercato, evitando l’accumulo di scorte o stock e, risultando, per tale motivo, più flessibile e adatto ai picchi del mercato (stagionalità, ecc). Alla base di questa
filosofia, c’è l’osservazione: occorre osservare ciò che fanno le persone per poi migliorarne le performance. È prassi consolidata in Toyota, in occasione di training presso lo stabilimento produttivo, quella di far “accomodare” l’ospite in un angolo del “gemba”, consentendogli
di osservare ciò che accade. In base alla sua esperienza, Mr. Imai nota che il tempo non viene mai utilizzato nel modo migliore e che tutto ciò che avviene nel gemba riflette il tipo di management: “Il gemba non mente mai!”. Uno degli obiettivi Kaizen è quello di creare standard di efficienza,
dopo aver identificato (ed eliminato) le attività che non portano valore (“muda”), grazie all’applicazione delle linee guida “5S”, e cioè: “getta via ciò che non serve” (ad esempio si
pongono cartellini rossi su oggetti del gemba che risultano superflui), “metti in ordine
ciò che serve” (così è pronto per l’uso), “pulisci l’area di lavoro (in tal modo sei più
attento a ciò che succede al macchinario), “crea lo standard”, “segui una rigorosa autodisciplina
per mantenere i nuovi standard”. Se si elimina ciò che è superfluo (muda), le persone lavorano più facilmente e questo è un fattore motivante, insieme al costante coinvolgimento di tutti i
dipendenti che si abituano a lavorare in team e a esprimere i loro pareri per apportare un miglioramento. Mr. Imai ritiene positivo adottare il Kaizen anche in un solo reparto, come progetto pilota, poiché con il buon esempio si crea “apertura” anche in altre aree.
Il Kaizen può essere applicato in tutti i contesti: Pubbliche amministrazioni (il Governo delle Mauritius lo sta adottando), banche, ospedali e via via. Implica un cambio di prospettiva e un allenamento costante, certamente in contrasto con l’ottica di profitto di breve termine
tipico del mondo azionario degli shareholder. Tenendo ben presente la massima del filosofo cinese Lao Tze: “Anche un viaggio di mille miglia inizia con un passo”. Quello, in questo caso, verso un cambiamento consapevole e desiderato


Valorizzare le “debolezze” Il segreto del bravo coach

di Barbara Costantini Rivista Econerre 10-2010

Il terzo seminario del Programma internazionale di sviluppo delle competenze economiche e manageriali, organizzato dal Ctc (Competence training center – Centro di formazione manageriale e gestione d’impresa) della Camera dicommercio di Bologna ha visto il
gradito ritorno di Jan Ardui (psicoterapeuta della Gestalt, trainer internazionale di
Programmazione neurolinguistica ed executive coach per numerose aziende). L’apertura del professionista belga è proprio sulla definizione di chi è un vero coach: un facilitatore, piuttosto che
qualcuno con la risposta a ogni domanda e problema. Si tratta di una relazione adulto-adulto,
in cui un esperto incontra un altro esperto. Otto le regole d’oro di Jan Ardui per un coaching efficace: obiettivo chiaro – per esempio un rapporto migliore con i collaboratori – osservare ed
ascoltare, fare domande puntuali, riformulare ciò che dice il coachee, dare feedback e chiedere feedback, distinguere fra comportamento e intenzione, chiedendosi cioè cosa si vuole ottenere agendo in un certo modo. Quindi, se una cosa non funziona, fare altro, anche ripartendo da
zero – nell’esplorazione con il coachee – e risolvere, aggiungendo: se un cliente chiede di eliminare la timidezza che soffre durante i public speaking, il coach dovrà aiutarlo a
modificare il contesto in base alla timidezza e non ad eliminarla. Il coaching, insomma, è un processo che aiuta a mettere in luce le qualità e le debolezze di una persona, per poi sostenerla nell’utilizzare tutto ciò che essa è, anche nel ruolo professionale. Un altro elemento fondamentale del processo di coaching presentato – precedente a qualunque tipo di cambiamento richiesto – consiste nell’identificare il principio organizzativo che muove la persona e ne spieghi “il funzionamento”. Ciò avviene, comprendendo, insieme al cliente, come lavora la sua struttura superficiale (le espressioni, le azioni osservabili, ecc) e la sua struttura profonda (strategie, valori,
presupposti, ecc). Un principio organizzativo non è né buono né cattivo e, per trovarlo,
occorre un approccio non giudicante da parte del coach, la cui domanda base e guida di esplorazione dovrebbe essere: “Cosa ha bisogno di essere vero e di valore affinché una situazione,
comportamento, ciò che si osserva o ascolta sia così come è?” Secondo Mr. Ardui, il principio organizzativo contiene sempre complementarietà generative, ossia due poli lungo i quali
la persona oscilla nei diversi ambiti della sua vita. Identificare questo preziosissimo principio richiede – da parte del coach – la scoperta di routine nella vita del cliente e ogni tipo di
connessione fra la struttura superficiale e profonda, proprio per abbracciare la complessità che tutti noi siamo. Una domanda per iniziare la ricerca potrebbe essere relativa al tipo di
hobby preferito: se ad esempio amo nuotare, sono una persona che desidera fare le cose da sola, essere immersa completamente in ciò che faccio, appassionata nel lavoro “poiché sto
dentro”. Più quadri di questo tipo riesco a trovare, nel processo di coaching, più facilmente il principio organizzativo emergerà. Solo a questo punto posso passare – come cliente
–alla fase di cambiamento sfidante, utilizzando ciò che già c’è e che è stato reso visibile: le due complementarietà generative (alcuni esempi citati durante il corso sono stati “essere una persona che si snoda nelle situazioni” vs. “guardare in faccia le cose”, oppure “compassione vs. spietatezza”, ecc.). Il miglioramento delle performance nel ruolo – spesso obiettivo di un
percorso di executive coaching – è duraturo, quindi, solo se allineato alle peculiarità della persona, alla sua essenza. In questo modo il cliente cambia senza sforzo, in modo
naturale. Come ricordato anche in questa occasione, il feedback da coach a coachee aiuta il processo di visibilità e dovrà, di volta in volta, sostenere il cliente (feedback positivo),
riflettere ciò che è (feedback riflessivo) e introdurre differenze (feedback negativo).

Quando c’è incertezza Bisogna sperimentare

di Barbara Costantini Rivista Econerre 6_2010

Il secondo appuntamento del Programma Internazionale di Sviluppo delle Competenze Economiche e Manageriali, organizzato dal Ctc (Centro di formazione manageriale e gestione d’impresa) della Camera di Commercio di Bologna, ha visto come ospite Gary Dushnitsky, professore associato di Impresa & Management alla London Business School e da anni coinvolto
in ricerche sui temi dell’ Innovazione e del Corporate Venture Capital. Il seminario ha preso le mosse da un focus sul ciclo di vita dell’industria che – a seconda dei settori – può durare cinque anni, come solo un mese ed è caratterizzato dai diversi step: fase di rottura o discontinuità;
nascita di un design dominante; innovazione incrementale; maturità e infine una nuova fase di rottura o discontinuità. La fase iniziale di shock può aprire uno spazio per l’entrata di nuove
imprese. Se è vero che momenti di discontinuità rappresentano chance d’investimento, è altrettanto vero – secondo Mr Dushnitsky – che il mercato è composto da segmenti molto
diversi per entità e bisogni. I primi acquirenti, ad esempio di prodotti tecnologici, saranno gli “innovatori”, che proveranno a “giocare” con il prodotto, mentre i “visionari” coglieranno le potenzialità del nuovo bene, immaginando anche nuove applicazioni. Il terzo segmento che
sostiene il nuovo business è quello dei “primi utilizzatori”, che sono pragmatici, con necessità urgente di avere soluzioni a problemi presenti e per i quali l’affidabilità e l’assistenza sono essenziali. Quest’ultimo segmento sembra essere il più promettente, dato che esprime un chiaro
bisogno ed è formato da clienti potenziali che si basano sulle opinioni di pari per decidere l’acquisto. Il professore suggerisce – quasi in controtendenza rispetto ai sostenitori dell’high-tech sempre e comunque – di focalizzare gli sforzi anche su una nicchia di mercato che, seppur meno
avanzata tecnologicamente, sia caratterizzata da una chiara e specifica esigenza a cui magari le imprese più grandi presenti sul mercato non hanno convenienza a rispondere. A riprova di ciò, il fatto che in diversi casi la tecnologia dominante è stata – anche per molti anni – quella meno
efficiente: sistema di videotape VHS (della JVC) vs. sistema Betamax della Sony, solo per fare un esempio notissimo e studiato da anni in ambito manageriale. Quali sono dunque le sfide per le
imprese? Innanzitutto operare in un ambiente con un tasso rapidissimo di innovazione e caratterizzato da elevata incertezza, non essendo nella maggior parte dei casi possibile quantificare a priori il ritorno dell’investimento. Dove c’è incertezza –
sostiene Gary Dushnitsky – la strategia più adatta è quella di sperimentare, prendendosi il tempo per realizzare esperimenti cumulativi, sostenendo la creatività espressa dai collaboratori
o – al limite – affidandosi al mercato esterno. Un esempio è rappresentato dalla piattaforma web InnoCentive (www.innocentive.com) dove – come in un brainstorming globale – la comunità imprenditoriale pone quesiti di varia natura (tecnici, marketing etc.) dietro il pagamento di ricompense monetarie e visibilità del vincitore ideatore. Un’altra fonte di approvvigionamento
esterno di know-how è rappresentato dal Corporate Venture Capital: società di investimento ad
hoc per la promozione di start up. Tali società agiscono al servizio della società capogruppo con l’obiettivo principale, fra gli altri, di mappare le innovazioni emergenti, aprire una finestra su nuove opportunità di mercato e migliorare il livello di innovazione del business esistente.
Restano da chiarire, secondo Dushnitsky, due aspetti critici o paradossi del Venture Capital: se la
sola motivazione del Capitalist è la ricompensa economica, c’è il rischio che molti progetti vengano scartati a priori; se, in secondo luogo, l’ambiente non consente la protezione
dell’innovazione tramite il deposito di brevetti, l’azienda innovatrice non godrà del vantaggio competitivo legato alle nuove scoperte. Molto saggiamente, per bilanciare questi rischi, il professore consiglia di mantenere sempre un ufficio R&S interno


Amartya Sen: oltre la “dittatura” del Pil

di Barbara Costantini, Rivista Econerre 5-2010

Amartya Sen, professore emerito all’Università di Harvard e Premio Nobel per l’economia
nel 1998, ha tenuto la conferenza inaugurale della IX edizione del Programma internazionale
di sviluppo delle competenze economiche e manageriali, organizzato dal Ctc (Competence training center – Centro di formazione manageriale e gestione d’impresa) della Camera
di commercio di Bologna. La lectio magistralis – ricca e densa del pensiero dell’economista indiano,impegnato da anni a sviluppare temi legati al welfare e alla lotta contro la povertà e la disuguaglianza – ha posto al centro alcune valutazioni relative al Pil, un indicatore non idoneo, ha spiegato l’economista, per misurare un welfare sostenibile. Già membro – insieme a Joseph Stiglitz, Jean Paul Fitoussi e altri eminenti economisti – della Commissione voluta dal presidentefrancese Nicolas Sarkozy con l’obiettivo di verificare i limiti del PIL come indicatore delle prestazioni economiche e del progresso sociale, Sen, riprendendo una tesi già sviluppata
a partire dagli anni Ottanta, ha spiegato come il Pil dovrebbe essere affiancato da considerazioni in termini di ricchezza economica, felicità- utilità e capacità-libertà, per riuscire a misurare gli standard di vita delle persone. Anzitutto, secondo il responso della Commissione, il livello di benessere deve essere misurato sulla base della ricchezza economica. Quindi lo standard di vita, da rilevarsi anche e soprattutto in base alla felicità delle persone. Infine la misurazione del
benessere, che deve essere calcolata tenendo in considerazione la capacità (capability) e la libertà degli individui. Personale – e in parte sganciato da quello della stessa Commissione – risulta il pensiero dell’economista indiano. L’utilizzo della ricchezza economica come indicatore – ha rilevato – non tiene conto di diversi aspetti cruciali. Innanzitutto, a parità di ricchezza, le persone possono avere caratteristiche diverse, tali per cui hanno bisogno di sostenere spese maggiori (pensiamo alle persone disabili o con handicap). Pertanto, individui con differenti caratteristiche
avranno differenti capacità di trasformare reddito o ricchezza in benessere. Da queste differenze – che come tali non possono essere ignorate – si passa alla considerazione delle condizioni
ambientali, indipendenti dal reddito, che possono avere effetti importanti sulla qualità della vita (ad esempio climi particolari e relativi effetti su determinati territori). Infine, anche il clima sociale ha un notevole peso sulla quotidianità delle persone (per esempio la possibilità o
meno di partecipare alla vita pubblica e politica). Circa la felicità, Sen ricorda poi come-questa sia spesso considerata come il solo criterio per valutare la società e le relative politiche d’intervento pubblico. L’utilità viene definita come felicità e la seconda è valutata come soddisfacimento dei desideri. Una parte di economisti sostiene che non si può utilizzare la felicità come misura di benessere, perché ritiene impossibile la comparazione fra utilità di persone distinte. In realtà, il
professore indiano – che ritiene invece possibile un ordinamento fra utilità – va oltre il criterio matematico e pone un forte accento sul tema delle libertà, intese come opportunità sostanziali (libertà negative e positive) e diritti umani. Inoltre, dimenticare questi ultimi elementi (o meglio
valori) porterebbe a valutazioni distorte della realtà: persone che vivono costantemente in condizioni di deprivazione imparano ad adattarsi alla loro vita per rendersela tollerabile,
arrivando a smettere di desiderare o sperare in un cambiamento della loro condizione. Se giudicassimo il benessere di queste persone solo sulla base della loro felicità
avremmo un quadro distorto del reale svantaggio nei loro standard di vita.
Infine le fondamenta dell’approccio delle capacità (capabilities) – che ha radici lontane nelle nozioni filosofiche di giustizia sociale – ha come focus gli obiettivi che ogni persona si dà, insieme al rispetto delle abilità personali per raggiungere gli stessi, in base ad un proprio set di valori,
ossia, come ha detto lo stesso Sen, “la capacità e libertà di perseguire ciò che desideriamo”, o la risposta alla domanda “di cosa abbiamo bisogno per vivere?”. Una terza via, in sostanza, che pone l’attenzione sulla capacità come libertà, invece che come standard di vita, e che dovrebbe aiutare i governanti a far luce oltre il Pil


lunedì 6 dicembre 2010

NUOVO UMANESIMO ANTIDOTO AL VUOTO

La Repubblica 4.12.10 Benedetta Tobagi


RILANCIARE il desiderio": non è la ricetta di un manuale per coppie in crisi, ma l' invito conclusivo della serissima relazione del Censis, fotografia di un' Italia che ha retto ai colpi della crisi economica, ma appare esausta, smarrita, sfibrata. Contro "il deserto che cresce" dentro e fuori dagli italiani, scrive il sociologo De Rita, "tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica della società". La relazione si serve di concetti psicanalitici nel tentativo di muovere oltre le previsioni di breve periodo, in cerca di una diagnosi di quello che emerge come il dato dominante: un malessere profondo. In una società sempre più orizzontale e "indistinta", l' invito è tornare a guardare dentro di noi: ogni vero cambiamento dovrà necessariamente partire dall' interno delle coscienze. Fenomeni molto diversi tra loro, (dalle violenze sempre più gratuite e insensate, ai fenomeni di bullismo, dall' anoressia alle droghe alla ricerca di rischi estremi, come il balconing), vengono collegati in una quadro più ampio, in cui centrale è proprio l' indebolirsi del desiderio, in favore di una scomposta "onda di pulsioni sregolate". Se il desiderio è in crisi, si argomenta, è anche per il parallelo deteriorarsi della legge, il principio normativo, esterno e interno, con cui esso deve lottare e "negoziare" per affermarsi. Crisi della legge ben visibile nella perdita di prestigio delle auctoritas tradizionali. La maturazione del desiderio - e l' impegno per cercare di realizzarlo - non è il soddisfacimento immediato di un bisogno. Serve tempo per maturare desideri autentici, gli unici in grado di alimentare un progetto che riempia di senso la vita. Come insegnava il filosofo Spinoza, il desiderio ( cupiditas) è la passione fondamentale che proietta gli uomini nel futuro, passa attraverso le resistenze, fa i conti coi limiti imposti dalla realtà, rinuncia ai deliri d' onnipotenza come ai buchi neri delle dipendenze da oggetti, droghe, denaro, sesso. Per questo a partire dalla riscoperta del desiderio possiamo finalmente abitare un orizzonte progettuale, dentro una trama coerente di azioni che rende sopportabili anche gli ostacoli, in vista dello scopo: una narrazione, insomma, secondo il modulo più classico della saga, il "viaggio dell' eroe". E quanto sia profonda la fame di una simile dimensione "narrativa", mi pare lo confermino il successo del messaggio politico del "poeta" Nichi Vendola, come pure il successo dei racconti di Roberto Saviano, che ha catturato milioni di telespettatori con le sue storie, ma anche la scelta degli studenti in protesta di mascherarsi da uomini-libro: la letteratura, come in Fahreneit 451, offre strumenti per immaginare altri mondi possibili, e scoprire desideri profondi da cui muovere verso il cambiamento. Che ci sia "bisogno di desiderio" lo mostrano da settimane tutti coloro - e sono soprattutto ragazzi e giovani adulti - che protestano chiedendo che non gli venga rubato il futuro. Non chiedono garanzie o privilegi, ma un orizzonte normativo e programmatico in cui sia possibile provare a giocare la propria partita, a prescindere dal censo, dalle appartenenze, dal sesso. Con forte senso di realtà: chi protesta nelle strade non vuole più "tutto e subito", ma la possibilità di studiare in un ambiente serio e competitivo; di accendere un mutuo in cui impegnarsi per decenni; di ingaggiare progetti di lungo periodo: dal matrimonio alla ricerca, alla creazione di un' attività imprenditoriale, artistica o intellettuale, a un figlio. Il riaffacciarsi del "desiderio" dunque, si intreccia profondamente alla domanda di restituire centralità e prestigio alla dimensione della norma, della "legge". Da destra come da sinistra si invoca un ritorno alla legalità come valore centrale. Il governo che sta miseramente crollando è anche la fine di una narrazione - quella del "nuovo miracolo italiano" - che ha venduto modelli di sogni e desideri fittizi, perversamente deformati, inautentici. Ora tutto questo non basta più, nemmeno a destra. Nella tundra del presente congelato dal cinismo fotografato dal Censis, il richiamo alla fiamma del desiderio brilla come il fuoco che cercano di mettere in salvo l' uomo e il bambino in viaggio nello scenario post-apocalittico del romanzo La strada di Cormac McCarthy.

L' Italia e la fatica di vivere Censis: ritrovare i desideri

La Repubblica 4.12.10 LUISA GRION

Un paese che non ha spessore, che non ha vigore, che non si appassiona e che non desidera. Sommersi da una quantità di prodotti e di offerte che non hanno chiesto, gli italiani sono come quei bambini che a Natale vengono travolti da valanghe di regali che non hanno volutoe con i quali non intendono giocare. Per la maggior parte sono sopravvissuti alla crisi economica, ma sono diventati adulti apatici che galleggiano in una società appiattita. E' a loro che il Censis dedica il rapporto 2010 ed è a loro che Giuseppe De Rita, presidente del centro studi, indirizza quella che suo malgrado - ammette «è una sorta di esortazione profetica»: cambiate, uscite dal narcisismo e dal cinismo che hanno dominato questi ultimi anni e «tornate a desiderare, ad appassionarvi, a dare il giusto peso alle norme e alla regole». Perché dove la legge conta sempre di meno avverte - non c' è desiderio, e dove non c' è desiderio, non c' è né forza, né prospettiva. Il paese «diventa come un campo di calcio senza porte: non si sa dove andare, né come imbastire un' azione». Se questa svolta non arriverà l' Italia non ce la farà ad uscire da una crisi che ora, più che economica, sembra sociale. Arrancherà nella sua fatica di vivere, alla ricerca di un senso perduto. Perché siamo arrivati a questo e cosa bisogna fare per salvarsi «da questa società pericolosamente segnata dal vuoto»? Il rapporto dà a queste domande risposte precise: se siamo diventati così e rischiamo ora di diventare una nazione che non riesce a tenere sotto controllo «l' onda di pulsioni sregolate che va dalla violenza familiare, al bullismo, ai facili godimenti sessuali» è perché non abbiamo saputo governare il «soggettivismo». La centralità dell' «io» ha dominato nel bene e nel male lo sviluppo del paese negli ultimi decenni, ha garantito la vitalità del modello italiano ed è poi culminata nella figura di un leader carismatico, Berlusconi, che oggi rappresenta però «l' icona di un ciclo esaurito». Il Censis consiglia di uscire dall' illusione che vi possa essere un vertice che con il suo «ghe pensi mi» risolve ogni problema. Ora, ha assicurato De Rita, «un leader dovrebbe ridare agli italiani il senso della loro responsabilità». La svolta è possibile, anzi la data è già prevista: il rinnovo di un ciclo ha bisogno di qualche anno, potrebbe arrivare entro il 2015. Ma affinché la rinascita avvenga gli italiani devono darsi una svegliata e rimettersi in gioco: a partire da quei oltre due milioni di giovani che, come l' Istat racconta da mesi, non studia, non lavora, non si forma. Ma il monito del Censis non esclude nemmeno chi può contare su un lavoro tutelato: «Siamo il paese europeo con minor flessibilità e con la minor partecipazione dei dipendenti agli utili delle imprese». Anche qui serve passione, desiderio, spessore e voglia di innovarsi: senza queste spinte non ci sarà economia o società che riesca a rimettersi in marcia. -