martedì 3 giugno 2008

JOHN LLOYD: IL MERCATO È INDISPENSABILE ALL’INFORMAZIONE MA L’INFORMAZIONE È INDISPENSABILE ALLA DEMOCRAZIA

02/06/2008
L’editorialista del Financial Times introdotto da Dario Laruffa - Festival Economia 2008

Lasciare decidere ai lettori può significare dare la priorità alle ricette di cucina. Internet non può sostituire il giornalismo qualificato.
Il mercato è indispensabile all’informazione, anche perché l’informazione nasce con il mercato. Però ci sono dei problemi, che riguardano i giornalisti e nell’era di internet, della pay-tv, della free press, o più banalmente dell’audience anche tutti i cittadini: pensiamo ai produttori “informali” di informazioni, che mettono i loro video on-line, o ai lettori e telespettatori che con le loro scelte quotidiane decidono in sostanza dello spazio che le testate dedicheranno ad Hezbollah e ai terremoti oppure alle ricette di cucina e al gossip. Queste alcune delle suggestioni raccolte stamani nel corso dell’incontro con John Lloyd, giornalista, editorialista del Financial Times, per molti anni corrispondente a Mosca, introdotto da un volto noto del Festival dell’Economia, il giornalista Rai Dario Laruffa.
Ed è stato proprio Laruffa, in apertura, a dare i dati aggiornati sul mercato dell’informazione in Italia. Innanzitutto: nonostante internet e le tv tematiche la televisione generalista “tiene”, eccome, la guardano l’85% degli italiani per almeno 4 ore al giorno. Neanche la radio se la passa male: l’ascoltano quotidianamente 38 milioni di italiani. Almeno il 42% della popolazione ha invece accesso ad internet, e secondo dati recentissimi questa percentuale avrebbe ormai superato il 50%; rimaniamo però al di sotto della media europea. A passarsela meno bene sono i giornali, ma anche qui con qualche distinguo: gli acquirenti sono 5,5 milioni al giorno, con un calo del 10% negli ultimi 7 anni (e una situazione disastrosa soprattutto al Sud). Ma al tempo stesso il 79% degli italiani sopra i 14 anni dice di leggere un quotidiano, a pagamento o su internet: ovvio pensare che il giornale passi di mano in mano, che per ogni copia venduta ci siano più lettori. A leggere poco i giornali quotidiani sono soprattutto i giovani - c’è una calo del 4% nella fascia fra i 18 e i 24 anni – e le donne, -20% di lettrici rispetto agli uomini: ma le lettrici compensano con i periodici.
In definitiva, quindi, per Laruffa oggi è possibile essere informati: semplicemente, molti non gradiscono esserlo.
John Lloyd – australiano di origine - ha iniziato la sua relazione dicendo di essere felice di essere in Italia il giorno della Repubblica: “Noi non abbiamo questa festa – ha aggiunto – perché non siamo una Repubblica (l’Australia è una monarchia costituzionale federale con a capo la regina d’Inghilterra ndr)”.
Venendo al tema del giorno, Lloyd ha detto non solo che se il giornalismo è libero allora anche il paese tende ad essere libero, ma che il mercato e la competizione, secondo i padri del pensiero liberale, come John Stuart Mills, fanno bene alla verità, perché laddove si confrontano due tesi, una vera e l’altra falsa, alla fine la prima prevale. Thomas Jefferson disse addirittura che avrebbe preferito farsi governare dai giornali che da un governo: era l’epoca in cui gli Stati Uniti cercavano di liberarsi dal giogo coloniale britannico, gli organi di informazione, di qualsiasi specie essi fossero, venivano visti come una fonte indispensabile di libertà e di democrazia.
Storicamente, ha aggiunto ancora Lloyd, pare che il giornalismo sia nato nella Venezia della fine del XVI secolo: e Venezia all’epoca era “il mercato del mondo” per eccellenza. Come dubitare quindi dell’importanza del mercato in questo campo?
In realtà, però, oggi si sono dei problemi. Innanzitutto, il ruolo del pubblico, dei lettori, perché è evidente che un giornalismo fondato sul mercato non possa prescindere dal gradimento che esso riscuote (e quindi dalle vendite). Ma le ultime esperienze di free press (stampa distribuita gratuitamente), che a loro volta si basano moltissimo su questo fattore, a volte anche con rilevazioni periodiche del gradimento dei lettori rispetto alle diverse notizie pubblicate, cosa ci mostrano? Che in realtà i lettori vogliono soprattutto ricette di cucina e annunci immobiliari, non notizie sul conflitto mediorientale o sulle catastrofi che si abbattono in aree remote del pianeta. Di conseguenza, anche le più prestigiose testate generaliste oggi entrano in crisi, chiudono le sedi estere, insomma perdono terreno; oppure si orientano verso settori – come gli annunci commerciali – che poco hanno a che fare con l’informazione così come la pensava Thomas Jefferson.
Ci sono però vari modi per non soggiacere alla legge del mercato e dei grandi numeri. Alcune volte la soluzione è rappresentata dalla stessa proprietà: che magari realizza utili in settori lontanissimi da quello dei media, ma decide comunque di continuare a pubblicare un giornale perché dà prestigio, salvo magari a cambiarne la natura, come fece Murdoch con il Times di Londra, trasformandolo da giornale dell’establishment a giornale dell’anti-establishment.
Ci sono poi altre strade: in Svezia, dove il mercato di per sé sarebbe troppo ristretto per consentire la sopravvivenza di testate di qualità, c’è una fondazione che pensa a questo. Negli Usa invece vi sono fondazioni che sostengono le università che formano i futuri giornalisti.
Venendo alle televisioni in particolare, di solito lo Stato ha sempre cercato di disciplinarne il mercato: la logica è che di emittenti ce n’erano poche, rispetto ad esempio ai giornali. Ma oggi le tv vanno anche su internet, e nei giornali trovi spesso allegati gli stessi film che passano le televisioni. Ha ancora senso, allora, un controllo pubblico? E se sì, in quali termini? Ed ancora: con internet gli stessi lettori sono diventati informatori. Lo si è visto nella recente catastrofe birmana: foto e informazioni sul ciclone e le sue vittime hanno scavalcato la censura del regime e sono dilagate nel mondo. Un problema – secondo Lloyd - è dato dal fatto che sempre di più l’interesse del pubblico si sposta dalla pura informazione al commento. E poi, chi si fa garante dell’enorme molle di informazioni o di opinioni che “navigano” a briglia scolta nell’oceano mediatico, se a monte non c’è un’azienda vera e propria – un giornale, una tv – che vaglia e decide? Come trasferire l’etica del servizio pubblico in internet?
Molti interrogativi rimangono aperti, dunque. Ma in definitiva l’importante è continuare a pensare che il giornalismo è una parte essenziale della democrazia.

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