Una cara amica, avvocato, responsabile di importanti progetti all’interno di una multinazionale spagnola, viene invitata (costretta, l’altro project manager se n’era andato all’improvviso) dal suo capo (ingegnere) a guidare una squadra di nove ingegneri (maschi) verso l’ottenimento di un certo risultato tecnico/commerciale (non mi inoltro nei dettagli dell’incarico per non farvi suicidare).
Bene.
L’avvocatessa, presa alla sprovvista, nonostante un carattere combattivo e ambizioso e una buona competenza pratica rispetto all’obiettivo, capisce di essere sola, che potrebbe avere serie difficoltà gestionali, che non ha abbastanza esperienza per affrontare gli eventi e non le va per niente di frignare sulla spalla della sua segretaria ogni giorno, decide, quindi, di affidarsi a un noto (e sottolineo noto, non junior) coach.
Il coach, dopo una prima intervista alla sua coachee, accetta di prenderla sotto la sua ala (sai che novità).
Nelle settimane che seguono la stipula del loro accordo, iniziano le prime frizioni tra l’avvocatessa e il suo gruppo di ingegneri selvaggi. Si riscontra, come è normale che sia, data la situazione, un problema di leadership e di credibilità (sai che novità). Il coach sprona la coachee a tenere duro, la imbottisce di moniti, di frasette motivazionali, di esempi di gente che ce l’ha fatta anche in condizioni durissime, di vaghi suggerimenti, (senza mai offrire soluzioni concrete, per carità), di invenzioni curiose tipo mettersi sulla scrivania un oggetto porta fortuna, investirlo cognitivamente di poteri taumaturgici e strofinarlo ogni giorno come si fa con gli amuleti, le fa cambiare modo di vestire (femminile, ma più maschile di prima), le fa leggere libri sull’intelligenza emotiva e le fa vedere venticinque volte “ogni maledetta domenica”, “il discorso del re”, “le ali della libertà” e altre imperdibili pellicole ottime per gli impressionabili, le fa imparare a memoria battute fulminanti da usare durante le riunioni, le regala un’agenda dove segnare le priorità, i progressi, le diverse strategie da usare con ogni ingegnere, la investe di ogni tipo di suggestione e, last but not least, cerca di convincerla che il successo è tutto nella sua testa, che il destino è nelle sue mani, che restando convinta, motivata, very self-empowerment orientend, lei vincerà, VIIIIINCEEEERAAAAAAA’….!!!!!!!
Risultato: la sostituiscono dopo 4 mesi.
Lei, distrutta, amareggiata, frustrata e ferita dalla consapevolezza di avercela messa tutta, di aver cercato di dominarsi in ogni modo, di aver accolto la motivazione nelle sue membra, nelle sue sinapsi, nella sua anima.
Commento del coach: “devi essere fiera di te perché sei cresciuta moltissimo, hai dato il massimo, le circostanze hanno giocato a sfavore, l’ambiente ti penalizzava, hai imparato importanti lezioni che potrai mettere a frutto nei giorni a venire, chissà, se avessi davvero ascoltato il tuo cuore… e bla bla bla”.
Potrei portare innumerevoli esempi simili, ma mi fermo.
Ora, ognuno può avere la sua opinione sulle cose, sul coaching, sulla formazione, sulla leadership, sulla questione di genere, sulla gestione dei gruppi e va anche bene così, mi limito a dire una cosa: NON è TUTTO NELLA NOSTRA TESTA, NON DIPENDE TUTTO DA NOI, NON è SEMPRE E SOLO QUESTIONE DI APPROCCIO E DI ATTEGGIAMENTO. Il “successo” (come il risultato) è un elemento complesso e multifattoriale sul quale non è sempre possibile avere il pieno controllo e la totale influenza. A questo si aggiungono ulteriori mille questioni strutturali, personali, caratteriali, etiche, di cosa sei disposto a fare e, diciamolo, di culo, di puro, essenziale e potentissimo CULO.
Basta con queste stronzate motivazionali che, se fallisci, ti fanno sentire ancora più fallito.
Ma, soprattutto, basta con le semplificazioni, coi messaggi sbagliati, con le illusioni ottiche, con la dipendenza da sè stessi che, a volte, è più dannosa della dipendenza dagli altri, con i deliri di onnipotenza, con le favolette.
Poi, se decidiamo tutti insieme di credere negli unicorni, io ci sto e mi offro di pettinar loro la folta criniera.