giovedì 8 settembre 2011

IL TRILEMMA CHE IMPRIGIONA L´ECONOMIA GLOBALE

Dani Rodrik - La Repubblica 8 settembre 2011



La globalizzazione è in difficoltà, ancora una volta. L´era del gold standard, con merci e capitali che circolavano liberamente, finì bruscamente nel 1914 e nessuno riuscì a resuscitare quel sistema dopo la prima guerra mondiale. Ci attende un collasso economico analogo negli anni a venire? La domanda non è peregrina. La globalizzazione dell´economia ha consentito livelli di prosperità senza precedenti nei Paesi avanzati ed è stata una manna per centinaia di milioni di lavoratori poveri in Cina e in altri Paesi dell´Asia, ma poggia su piedi malfermi. A differenza dei mercati nazionali, che normalmente sono supportati da un ampio ventaglio di istituzioni normative e politiche, i mercati globali non possono contare su fondamenta solide: non esiste nessun prestatore globale di ultima istanza, nessuna autorità di regolamentazione globale, nessun regime fiscale globale, nessuna rete di sicurezza globale e naturalmente nessuna democrazia globale. Questa governance tanto fragile espone i mercati globali a instabilità, inefficienza e deficit di legittimazione popolare.
Questo squilibrio tra il potere nazionale dei Governi e la natura globale dei mercati rappresenta il ventre molle della globalizzazione. Un sistema economico mondiale sano necessita di un delicato compromesso fra le due cose. Troppo potere ai Governi e ci si ritrova con protezionismo e autarchia; troppa libertà ai mercati e ci si ritrova con un´economia mondiale instabile e scarso consenso sociale e politico da parte di quelli che dovrebbero trarne beneficio. I primi trent´anni dopo il 1945 furono governati dal compromesso di Bretton Woods, dal nome della località di villeggiatura del New Hampshire dove americani, inglesi e altri rappresentanti delle nazioni alleate si riunirono nel 1944 per disegnare il sistema economico del dopoguerra. Il sistema di Bretton Woods era un multilateralismo leggero, che consentiva alle autorità nazionali di concentrarsi sulle esigenze sociali e occupazionali interne e contemporaneamente di lasciare spazio agli scambi commerciali globali per favore la ripresa e la prosperità. L´aspetto geniale del sistema era il suo equilibrio, che assolveva, in modo ammirevole, a più scopi.
Alla fine Bretton Woods, quando fu lasciata libertà di movimento ai capitali, si rivelò insostenibile. Negli anni 80 e 90 fu rimpiazzato da un più ambizioso programma di liberalizzazione e integrazione economica spinte, un tentativo di istituire quella che potremmo chiamare iperglobalizzazione. Gli accordi commerciali ora non si limitavano più, come tradizione, a occuparsi di restrizioni alle importazioni, ma andavano a interferire con le politiche nazionali: i controlli sui mercati dei capitali internazionali furono rimossi e i paesi in via di sviluppo furono sottoposti a pesanti pressioni per aprire i loro mercati ai commerci e agli investimenti esteri. La globalizzazione economica diventò, di fatto, uno scopo in sé.
Il risultato fu una serie di delusioni. La globalizzazione finanziaria ha finito per propagare instabilità invece che maggiori investimenti e crescita più rapida. All´interno dei Paesi, la globalizzazione ha generato disuguaglianza e insicurezza invece di migliorare uniformemente la vita delle persone. In questo periodo ci sono stati successi clamorosi, Cina e India su tutti. Ma questi sono Paesi che hanno scelto di giocare al gioco della globalizzazione non secondo le regole nuove, ma secondo quelle di Bretton Woods: invece di aprirsi incondizionatamente ai commerci e alla finanza internazionale hanno portato avanti strategie miste, con una massiccia dose di interventi pubblici per diversificare le loro economie. Nel frattempo, quei Paesi che seguivano ricette più consuete (come i Paesi latinoamericani) segnavano il passo. E la globalizzazione così è diventata vittima del suo stesso successo iniziale.
Per rimettere in piedi, su basi più solide, il nostro mondo economico, bisogna comprendere meglio il fragile equilibrio fra mercati e governance. Innanzitutto, mercati e Governi sono complementari, non alternativi. Se vogliamo più mercati e mercati migliori, dobbiamo avere più governance (e governance migliore). Il mercato funziona meglio non quando lo Stato è più debole, ma quando lo Stato è forte. In secondo luogo, il capitalismo non è un modello univoco: prosperità economica e stabilità si possono raggiungere attraverso diverse combinazioni di assetti istituzionali nel campo del mercato del lavoro, della finanza, della gestione aziendale, del welfare e così via. Le nazioni effettueranno (hanno il diritto di effettuare) scelte diverse fra questi sistemi, a seconda delle loro esigenze e dei loro valori.
Dette così possono sembrare idee trite e ritrite, ma hanno implicazioni enormi per quanto riguarda la globalizzazione e la democrazia, e per capire quanto possiamo prendere in presenza degli altri. Una volta capito che i mercati per funzionare bene hanno bisogno di istituzioni pubbliche di governo e di vigilanza, e anche che le nazioni possono avere preferenze diverse sulla forma che queste istituzioni e queste normative possono assumere, abbiamo cominciato a raccontare una storia che ci conduce a dei finali radicalmente diversi.
In particolare cominciamo a comprendere quello che io definisco il «trilemma» politico di fondo dell´economia mondiale: non è possibile perseguire simultaneamente la democrazia, l´autodeterminazione nazionale e la globalizzazione economica. Se vogliamo far progredire la globalizzazione dobbiamo rinunciare o allo Stato-nazione o alla democrazia politica. Se vogliamo difendere ed estendere la democrazia, dovremo scegliere fra lo Stato-nazione e l´integrazione economica internazionale. E se vogliamo conservare lo Stato-nazione e l´autodeterminazione dovremo scegliere fra potenziare la democrazia e potenziare la globalizzazione. I problemi che abbiamo nascono dalla nostra riluttanza a confrontarci con queste scelte ineluttabili.
Far progredire insieme la democrazia e la globalizzazione è possibile, ma il trilemma suggerisce che per fare una cosa del genere sarebbe necessario creare una comunità politica globale, un progetto molto, ma molto più ambizioso di qualsiasi cosa si sia vista in passato o si possa immaginare di vedere in un futuro prossimo. La governance democratica globale è una chimera, che sembra difficile da realizzare perfino in un raggruppamento ben più ristretto e coeso come l´Eurozona. Qualunque modello di governance globale si possa sperare di realizzare in questo momento potrà servire a supportare solo una versione molto limitata della globalizzazione economica.
Dunque dovremo fare delle scelte. Io non ho dubbi: la democrazia e la determinazione nazionale devono prevalere sull´iperglobalizzazione. Le democrazie hanno il diritto di proteggere i loro sistemi sociali, e quando questo diritto entra in conflitto con le esigenze dell´economia globale, è quest´ultima che deve cedere. Restituire potere alle democrazie nazionali garantirebbe basi più solide per l´economia mondiale, e qui sta il paradosso estremo della globalizzazione. Uno strato sottile di regole internazionali, che lascino ampio spazio di manovra ai Governi nazionali, è una globalizzazione migliore, un sistema che può risolvere i mali della globalizzazione senza intaccarne i grandi benefici economici. Non ci serve una globalizzazione estrema, ci serve una globalizzazione intelligente.


lunedì 1 agosto 2011

Lezioni di austerità da De Nicola a Ciampi

di Filippo Ceccarelli La Repubblica 31.07.2011


SEMBRA incredibile al giorno d' oggi, ma in Italia c' è stato un tempo in cui il potere non aveva bisogno di impartire lezioni di austerità. Era certo un dato naturale, se si vuole anche una triste necessità. ERA comunque una causa di forza maggiore, i disastri della guerra e le sofferenze patite da tanti cittadini sconsigliavano mega-staff, super-stipendi, iper-rimborsi, ultra-agevolazioni previdenzialie sanitarie, abitazioni deluxe, distribuzioni massive di Rolex e gitarelle in elicottero. Ma forse è arrivata l' ora di riconoscere che c' era, nell' esempio dei vecchi padri fondatori della Repubblica,e poi anche nella seconda generazione, qualcosa cheè andato irrimediabilmente perduto, e che mai come in questi giorni sarebbe ingiusto bollare come banale o fanatico pauperismo. E allora, tanto per rimanere al vertice delle istituzioni va detto che certe sere, nella sede provvisoria della Presidenza della Repubblica a Palazzo Giustiniani, Enrico De Nicola arrivò a cuocersi da solo due uova al tegamino, come un povero impiegato, scapolo per giunta. I membri del governo Bonomi, d' altra parte, si erano abituati a mangiare tutti insieme: il cameriere passava con un vassoio di polpette e nell' atto di servirle si chinava intimando con rispettosa fermezza: «Due, signor ministro». Alcuni leader tendevano persino a digiunare: «Non è il caso che il compagno Togliatti - disse Stalin e verbalizzò Secchia - si comporti come un asceta». E se i parlamentari della Costituente ottennero quale agognato benefit la tessera per girare gratis in autobus per Roma, un complesso sistema di turni consentì ad alcuni fortunati di prendere addirittura posto in un palco al teatro dell' Opera. Era il tempo aspro,è vero, delle grandi passioni ideologiche. E degli scontri in Parlamento e in piazza, anche sanguinosi. Eppure, una volta arrivato al Quirinale Luigi Einaudi, nei cui fantastici diari si trovano puntuali annotazioni riguardo alla quantità di uova prodotte dalle galline di famiglia, la leggenda luminosa di quella remota frugalità si rispecchia nell' apologo della pera che alla fine di un pasto il Capo dello Stato cominciò a osservare sospirando: «Per me è troppo grande: c' è qualcuno che vuole dividerla con me?». E viene da pensare agli sforzi dell' oggi, non solo alla benemerita iniziativa del Quirinale, ma anche a quell' ombra di penitenza che pare di cogliere in questi giorni nella "Repubblica delle pere indivise", tagli al bilancio delle Camere, sindaci come Fassino o Pisapia che riducono il numero dei collaboratori. Un po' perché non ci sono più i soldi; un altro po' perché la Casta - e dire che il fortunato best-seller di Stella e Rizzo è ormai vecchio di quattro anni - comincia a percepire nel paese qualcosa che le fa paura. Per andare in America, De Gasperi si fece prestare il cappotto da Piccioni. Nenni se lo rivoltava. La Pira e Dossetti sostenevano che con i sandali «si arrivava prima in Paradiso». Ma anche in seguito, per lungo tempo, i potenti non pensarono affatto che la loro condizione si risolvesse in comodità, privilegi, "guide rosse" (come diceva Andreotti) e belle figure tendenti alle smargiassate. Ancora alla metà degli anni ' 70 alcuni deputati democristiani dormivano nei conventi e alla Casa del Pellegrino, e c' erano onorevoli del Pci che per risparmiare passavano la notte in treno. E Almirante dava ripetizioni; e Pertini, di tasca sua, regalò un foulard alla mamma di Carter; e Ciampi pretendeva che i dirigenti di Bankitalia non girassero su automobili vistose; e Ugo La Malfa giunse a minacciare la crisi contro la tv a colori. A riprova che il buon esempio di solito è dato da chi nemmeno se ne rende conto, oppure arriva quando tutto sta sull' orlo del baratro, e l' unica speranza in questi casi è che non sia - come sembra oggi - troppo tardi.

martedì 5 luglio 2011

L'importanza del "Buongiorno" salutare ci fa sentire meno soli

Ilvo Diamanti La Repubblica 5 luglio 2011


DA SEMPRE HO l'abitudine di salutare, sempre, quando incontro qualcuno. L'ho appresa da bambino. Frutto di un'educazione tradizionale, si direbbe oggi. L'ho mantenuta fino a oggi. Così, nei miei percorsi quotidiani saluto tutte le persone che incrocio. Soprattutto, intorno a casa, a Caldogno, quando mi faccio guidare dal cane. (Lui - meglio: lei, la mia piccola Cavalier - sceglie l'itinerario mentre io leggo.) Oppure a Vicenza, in centro. O ancora a Urbino o a Urbania. A volte anche altrove.

Quando incontro qualcuno, da solo, mi è difficile fingere di non vederlo. Distogliere lo sguardo. Ma poi perché? Allora saluto con un cenno, con un buongiorno.

Un "ciao", quando si tratta di persona conosciuta. Serve a stabilire una relazione. Un legame. Nulla di vincolante. Ma la persona con cui hai "scambiato" il saluto - dopo - non è più un "altro". Diventa un "prossimo". Magari non troppo "prossimo". Perché il "prossimo" è qualcuno che ti sta vicino dal punto di vista della distanza non tanto (solo) fisica, ma emotiva e cognitiva. La persona che saluti diventa qualcuno che "ri-conosci" anche se non lo conosci.

Qualcuno che, a sua volta, ti ri-conosce, per reciprocità. Un "quasi" prossimo. Un "non estraneo". Un cenno di saluto serve, dunque, a tracciare un perimetro dentro il quale ti senti maggiormente a tuo agio.

Meno estraneo. Come avviene dovunque tu conosca o almeno riconosca qualcuno. Altrimenti, per quel che mi riguarda, mi sento spaesato. Fuori con-testo. Non dispongo, cioè, di un testo condiviso, di un linguaggio comune ad altri, anche se espresso senza parlare.

Perché non c'è bisogno di parole per comunicare con gli altri. Se non amici: non conoscenti. O, almeno, ri-conoscenti. Non è sempre facile, lo ammetto. Anzi, lo è sempre meno. Soprattutto da quando l'urbanizzazione ha stravolto i luoghi in cui vivo. Dove abito. Da quando lo spazio intorno a casa si è condensato e al tempo stesso liquefatto. Sovraffollato. Si è trasformato in una plaga immobiliare, una non-città, dove sono affluite centinaia e centinaia di persone. Sconosciute.

A me, ma anche tra loro. Non è facile salutare le persone (?) che incontro. D'altronde, è divenuto sempre più difficile trovare un po' di verde. Guidato dal mio cane, allungo il percorso e mi sposto sempre più in là, sempre più lontano. Anche se ormai gli spazi verdi sono quasi scomparsi. E i pochi rimasti sono destinati a scomparire presto. Inseguiti ed erosi da nuovi insediamenti residenziali, da nuove strade e da nuove rotonde. Così, mentre costeggio cantieri e prati residuali, case abitate e altre che verranno, incontro perlopiù altre persone che accompagnano i loro cani. O viceversa (come me). Ma è difficile rivolgere loro un saluto. Perché non mi vedono. Occupate, al cellulare, a parlare con altre persone lontane. Oppure isolate da tutti, soli con il loro iPod.

Ed è difficile, altrettanto difficile, salutare gli altri ("altri"), quelli che escono di casa mentre passo. Non importa se a 100 metri o a un chilometro da casa mia. Tanto non conosco quasi nessuno, di questi nuovi arrivati (o magari è da parecchio tempo che abitano nel quartiere, ma è lo stesso, perché sono anonimi. Non hanno un nome. Non li conosco e non si conoscono, neppure tra "vicini"). Quando li incontro e li saluto, con un buongiorno e (o) un cenno del capo, alcuni rispondono. Ri-cambiano. (Le donne, soprattutto.)

Altri si limitano a un gesto imbarazzato. Un po' sorpresi. Altri ancora non rispondono. Non dicono e non fanno nulla. Tirano dritto. Come non mi avessero visto. E forse è vero, è proprio così. Abituati a stare e a essere soli. Non si accorgono della mia presenza. O, comunque, preferiscono ignorarmi. Alcuni, infine, non rispondono ma mi guardano storto. Irritati più che stupiti. Percepiscono il mio saluto come un'intrusione. E si chiedono, mi chiedono, con lo sguardo, cosa io voglia da loro. E perché non me ne stia al mio posto. Cioè, lontano. Fuori dalla loro vista e dalla loro vita. Abitanti di questo mondo senza relazioni e senza società, guardano ma non vedono. E non ascoltano. Temono chi si avvicina troppo. (E non è un caso che gli "stranieri" suscitino imbarazzo e fastidio. Al di là di ogni altro problema: ci "avvicinano" e ci danno del tu).

Il prossimo, ha scritto Luigi Zoia, è morto da tempo. Sostituito da surrogati elettronici, che offrono mediazioni mediatiche infinite. Promuovono rapporti indiretti e im-personali. Apatici invece che empatici. Ma io non mi rassegno e continuo, continuerò a cercarlo. Il prossimo. A costruirlo, raffigurarlo. Intorno a me, almeno. Il prossimo. Anche se ridotto a un saluto, un cenno del capo. Non rinuncerò a guardare gli "altri" in faccia. Per egoismo. Per non sentirmi circondato "solo" da "altri". Cioè, per sentirmi meno "solo".

venerdì 22 aprile 2011

“VITE FLESSIBILI. Da Sant´Agostino a Internet l´utopia del lavoro indipendente”

BENEDETTA TOBAGI La Repubblica 22.04.11


Sono consulenti, informatici, copywriter, traduttori e interpreti, web designer, giornalisti, lavoratori dello spettacolo, dei media, dell´editoria, analisti e molto altro. Se di precari bene o male si parla, al centro di Vita da freelance (Feltrinelli, pagg. 288, euro 17) c´è il lato oscuro della luna, il lavoro autonomo “di seconda generazione” affermatosi negli ultimi trent´anni. Un saggio a quattro mani e due generazioni, autori il veterano Sergio Bologna, tra i più acuti studiosi dell´evoluzione dei sistemi del lavoro, e il giovane giornalista Dario Banfi, entrambi freelance doc, che si muove tra analisi quantitative e qualitative, profondità storica e prospettiva internazionale, senza trascurare i vissuti concreti, a partire dalle autonarrazioni di numerosissimi blog: una voce chiara e originale nel dibattito confuso sui problemi del lavoro di oggi e domani.

Lavoratori della conoscenza, indipendenti, autonomi, no collar, professional – non solo “partite iva” o “ditte individuali”: ripensare le parole costringe a guardare le persone oltre i regimi fiscali. Misconosciuti, denigrati, vessati dall´Inps in cambio di pensioni risibili mentre le aziende scaricano sulle loro spalle non protette troppi rischi a costo zero. Un esercito senza bandiera, sempre più numeroso, un´”area grigia” da 1,5 a 3 milioni, mancano cifre sicure (primo indicatore di disattenzione da parte della politica e degli studiosi), in cerca d´identità, diritti e riconoscimento. Se sono invisibili, un po´ dipende anche da loro. Vivono nella mobilità virtuale della rete, che connette al mondo, ma insieme isola in un lavoro domestico senza orari e confini: gli manca l´esperienza fondativa di vivere in uno spazio fisico comune – fabbrica, ufficio, scuola. Lavorano soprattutto da soli, e tanto: individualismo e un tendenziale disinteresse per la “cosa pubblica” sono attitudini molto diffuse. Al tempo stesso, per farsi conoscere, procacciarsi clienti, tenersi aggiornati, sviluppano forti competenze relazionali (e spendono buona parte della loro vita tra telefonate, appuntamenti ed email). Le attività che svolgono – bassa ripetitività e alto contenuto cognitivo – implicano creatività, capacità d´iniziativa, attitudine al “pensiero obliquo” e non conformista: una flessibilità, innanzitutto mentale, che arricchisce tutto il sistema. Nell´acuirsi della crisi, i freelance hanno sentito l´urgenza di creare reti e forum per solidarizzare, “ripensarsi”, fare lobbying. Per farlo occorre rappresentarsi, trovare categorie e modelli di riferimento per un´azione comune, e non è facile. I frames del lavoro salariato sono onnipervasivi e duri da smuovere: difficile ad esempio far comprendere ai committenti che il valore di una prestazione non è riducibile alle ore impiegate, prezzare le conoscenze tacite e l´esperienza. Il nuovo lavoro indipendente è figlio di una storia complessa, in cui confluiscono elementi eterogenei, contraddittori. Altro che San Precario: la genealogia risale a Sant´Agostino, brillante maestro di retorica freelance che cercò fortuna a Roma: la concorrenza sfrenata e il vizio degli allievi di non pagare lo indussero ad accettare un posto pubblico. L´ideologia del “professionalismo” (lavoro cognitivo e specialistico connesso a uno status sociale riconosciuto) e l´etica del successo della middle class americana esercitano un´influenza durevole, ma non bastano per capire il knowledge worker di oggi. Emerge un identikit del freelance, più “mercenario” che “gentiluomo”, lontano dalle logiche del lavoro dipendente ma nemmeno assimilabile ai professionisti afferenti a un ordine, come avvocati, medici e architetti. Molti freelance sono figli delle istanze libertarie degli anni Sessanta e Settanta, in fuga dall´alienazione del lavoro salariato. Gli autori ci raccontano un lavoratore antropologicamente nuovo, tra libertà e vincoli feroci (periodi di iperattività alternati al vuoto, l´assillo di pagamenti, l´incubo della pensione). Ma chi l´autonomia l´ha scelta non si riduce all´”io minimo” paralizzato dall´assenza di certezze per il futuro: anche nei blog più arrabbiati fa capolino la consapevolezza e la soddisfazione di fare un lavoro in cui si esprime ciò che sei e ciò che sai. Oltre le fredde logiche di efficienza e produttività, per capire cos´è il lavoro flessibile, la dimensione emotiva e cognitiva sono centrali. Il dumping che dilaga, vedersi tagliati fuori o accettare di lavorare gratis o quasi per poter esistere sul mercato, non produce solo un danno economico: si umilia la dignità, si intacca il senso del proprio valore. I drammi quotidiani del freelance si connettono a problemi più ampi. Il deprezzamento del lavoro cognitivo è inseparabile dalla diffusa svalutazione delle competenze: si abbassa il livello di servizi e prodotti intellettuali, un danno per tutti. L´assenza di tutele economiche e sindacali per il giornalismo freelance impatta su tutta l´informazione, un subdolo “bavaglio” invisibile.
Che fare, dunque? Cosa possono oggi i non garantiti, privi dei tradizionali strumenti di pressione su datori di lavoro, partiti e governi, per imporsi all´agenda politica? La parola chiave che percorre Vita da freelance è “coalizione”: più dei novecenteschi “sindacato” e “organizzazione”, lontano dalla logica conservativa degli ordini professionali, evoca azioni concordate e alleanze nella diversità, tra tante tipologie di autonomi diverse, tra autonomi e precari. La risposta non è sempre e solo la stabilità o il ricorso ai tribunali. Includere il lavoro indipendente nel dibattito vuol dire ragionare intorno a un welfare complesso a misura di cittadino-lavoratore: previdenza, assistenza, manutenzione e accrescimento del “capitale umano”, che è una persona nella sua interezza. Le storie delle coalizioni sperimentate in Usa, Francia, Inghilterra, Germania, gli interlocutori di Acta, l´associazione italiana dei freelance, di cui gli autori sono animatori, sono incoraggianti. Come dicevano i ragazzi di Barbiana: «Il problema degli altri è anche il mio: uscirne da soli è egoismo, uscirne insieme è la politica».

mercoledì 9 febbraio 2011

E la lotta di classe si sposta tra i banchi

di Marco Lodoli La Repubblica 09.02.11


Per alcuni decenni la scuola è servita anche ad avvicinare le classi sociali: nelle aule convergevano interessi e aspettative, si respirava la stessa cultura, si creavano possibilità per tutti. In fondo al viale si immaginava un mondo senza crudeli differenze, senza meschinità e ingiustizie. La conoscenza era garanzia di crescita intellettuale, e anche sociale ed economica. Chi studiava si sarebbe affermato, o quantomeno avrebbe fatto un passo in avanti rispetto ai padri. Tante volte abbiamo sentito quelle storie un po' retoriche ma autentiche: il padre tranviere che piangeva e rideva il giorno della laurea in medicina del suo figliolo, la madre che aveva faticato tanto per tirare su quattro figli, che ora sono tutti dottori.

Oggi le cose sono cambiate radicalmente. Chi viaggia in prima classe non permette nemmeno che al treno sia agganciata la seconda o la terza: vuole viaggiare solo con i suoi simili, con i meritevoli, gli eccellenti, i vincenti. "A me professò 'sto discorso del merito mi fa rodere. La meritocrazia, la meritocrazia... ma che significa? E chi non merita? E noi altri che stamo indietro, noi che non je la famo, noi non contiamo niente?". Questo mi dice Antonia e neanche mi guarda quando parla, guarda fuori, verso i palazzoni di questo quartiere di periferia, verso quei prati dove ancora le pecore pascolano tra gli acquedotti romani e il cemento. Qui la divina provvidenza del merito non passa, non illumina, non salva quasi nessuno.

Guardo la classe: Michela ha confessato che non può fare i disegni di moda perché a casa non ha un tavolo, nemmeno quello da pranzo. Mangia con la madre e la sorella seduta sul letto, con il vassoio sulle ginocchia, in una casa che è letteralmente un buco. Roberta invece mi racconta che stanotte hanno sparato in faccia al migliore amico del suo fidanzato, "era uno che se faceva grosso, che stava sulle palle a tanti, ma nun era n'animale cattivo, nun se lo meritava de morì così a ventidue anni". Samantha invece trema perché stanno per buttarla fuori di casa, a lei e alla madre e ai due fratelli, lo sfratto ormai è esecutivo e i soldi per pagare l'affitto non ce li hanno, forse già stanotte li aspetta la macchina parcheggiata in uno slargo vicino casa, forse dovranno dormire lì, e lavarsi alla fontanella con gli zingari.

La miseria produce paura, aggressività, ignoranza, cinismo. In pochi hanno i libri di scuola, si va avanti a fotocopie, anche se ogni insegnante ha ricevuto solo centocinquanta fogli per tutto l'anno, "perché i tagli si fanno sentire anche sui cinque euro, la scuola non ha più un soldo". In queste scuole di periferia le tragedie si accumulano come legna bagnata che non arde e non scalda, ma fuma e intossica. Tumori, disoccupazione, cirrosi epatica, aborti, droga, incidenti stradali, strozzini, divorzi, risse: tutto s'ammucchia orrendamente, tutto si mette di traverso e oscura il cielo. A ragazzi così segnati, così distratti dalla vita storta, oggi devo spiegare l'iperbole e la metonimia, Re Sole e Versailles, Foscolo e il Neoclassicismo. E loro già sanno che è tutto inutile, che i posti migliori sono già stati assegnati, e anche quelli meno buoni, e persino quelli in piedi. Hanno già nel sangue la polvere del mondo, il disincanto.

"E non ci venissero a parlà di eccellenza che je tiro appresso er banco. Tanto ormai s'è capito come funziona sto mondo: mica serve che lavorino trenta milioni de persone, ne abbastano tre, e un po' di marocchini a pulì uffici e cessi. Il paese deve funzionà come n'azienda? E allora noi non serviamo, siamo solo un peso. Tre milioni de capoccioni, de gente che sa tutto e sa come mette le mani nei computer e nelle banche, e gli altri a spasso. Gli altri a rubà, a spaccià, in galera, ar camposanto, dentro una vita di merda". Forse ha ragione questa ragazza, suo padre ha "un brutto male", come direbbe il buongusto - "un cancro che lo spacca, professò", dice lei - forse è vero che non dobbiamo fare della meritocrazia un ulteriore setaccio: l'oro passa e le pietre vengono buttate via.

I ricchi hanno capito al volo l'aria che tira, aria da Titanic, e hanno subito occupato le poche scialuppe di salvataggio: scuole straniere, master, stage, investimenti totali nello studio. L'élite non ha più tempo né voglia di ascoltare le pene della nazione, le voci dei bassifondi: ha intuito il tracollo della scuola pubblica e ha puntato sulle scuole di lusso. E così la scuola non è più il luogo del confronto, della convergenza, dell'appianamento delle differenze e della crescita collettiva. Non si sta più tutti insieme a istruirsi per un futuro migliore, a sognare insieme. Chi ha i soldi il futuro se lo compra, o comunque si prepara a "meritarselo". Chi non ha niente annaspa nel niente e deve anche subire l'affronto dei discorsi sull'eccellenza. Ormai il nostro paese è tornato ad essere ferocemente classista, ai poveri gli si butta un osso e un'emozione della De Filippi, li si lascia nell'abbrutimento e nell'ignoranza, mentre ai ricchi si aprono le belle strade che vanno lontano: lontano da qui, da questa nazione che inizia a puzzare come uno stagno d'acqua morta.

mercoledì 2 febbraio 2011

Una nuova coscienza di Giorgio Gaber –parziale-

E pensare che basterebbe pochissimo. Basterebbe spostare a stacco la nostra angolazione visiva. Guardare le cose come fosse la prima volta. Lasciare fuori campo tutto il conformismo di cui è permeata la nostra esistenza. Dubitare delle risposte già pronte. Dubitare dei nostri pensieri fermi, sicuri, inamovibili. Dubitare delle nostre convinzioni presuntuose e saccenti. Basterebbe smettere di sentirsi sempre delle brave persone. Smettere di sentirsi vittime delle madri,dei padri, dei figli. Smascherare, smascherare tutto: smascherare l’amore, il riso, il pianto, il cuore, il cervello. Smascherare la nostra falsa coscienza individuale. Subito. Qui e ora. Sì, basterebbe pochissimo. Non è poi così difficile. Basterebbe smettere di piagnucolare, criticare, fare il tifo e leggere i giornali. Essere certi solo di ciò che noi viviamo direttamente. Rendersi conto che anche l’uomo più mediocre può diventare geniale se guarda il mondo con i suoi occhi. Basterebbe smascherare qualsiasi falsa partecipazione. Smettere di credere che l’unico obiettivo sia il miglioramento delle nostre condizioni economiche perché la vera posta in gioco... è la nostra vita. Basterebbe smettere di sentirsi vittime del denaro, del lavoro, del destino e persino del potere, perché anche i cattivi governi sono la conseguenza naturale della stupidità degli uomini. Basterebbe rifiutare, rifiutare la libertà di calpestare gli altri, ma anche la finta uguaglianza. Smascherare la nostra bontà isterica. Smascherare la nostra falsa coscienza sociale. Subito. Qui e ora. Basterebbe pochissimo. Basterebbe capire che un uomo non può essere veramente vitale se non si sente parte di qualcosa. Basterebbe abbandonare il nostro smisurato bisogno di affermazione, abbandonare anche il nostro appassionato pessimismo e trovare finalmente l’audacia di frequentare il futuro con gioia. Perché la spinta utopistica non è mai accorata o piangente. La spinta utopistica non ha memoria e non si cura di dolorose attese. La spinta utopistica è subito. Qui e ora.

martedì 18 gennaio 2011

Sviluppo economico e leadership generativa

di Barbara Costantini Rivista Econerre 11.

Simon Evenett
Il penultimo seminario del
Programma internazionale di sviluppo
delle competenze economiche
e manageriali, organizzato
dal Ctc (Competence training center
– Centro di formazione manageriale
e gestione d’impresa) della Camera
di commercio di Bologna ha offerto
alla platea l’opportunità di conoscere
un grande esperto in
Commercio internazionale
e Sviluppo economico:
Simon Evenett
(Università St. Gallen,
Svizzera).
La prima suggestione
offerta dal professore
inglese, sul tema della
concorrenza dei mercati
emergenti, è quella di
porsi due domande
chiave: primo, la concorrenza è semplicemente
una questione legata a
costi o prezzi più bassi? Quindi, in
qualimodi la minaccia competitiva si
modificherà nel tempo?
L’utilizzo di uno studio chiarificatore
svolto dal Centro di ricerche francese
Cepii (per la direzione generale
Trade dell’Unione Europea) pone in
evidenza come – ad esempio nel
2005 – i 25 Paesi dell’Unione abbiano
mantenuto quasi costanti le loro
quote di mercato, così come i concorrenti
emergenti di India, Russia e
Brasile. Un forte balzo in avanti è
stato fatto dalla Cina (più 13,94) a
scapito di Usa (meno 7,63) e
Giappone (meno 9,26). L’aspetto
interessante ai fini della nostra analisi
è che i dati menzionati si riferiscono
a un particolare tipo di produzione,
quella caratterizzata da un
alto livello tecnologico, il che evidenzia
che nel settore manifatturiero
ad alto valore aggiunto le imprese
dell’Europa comunitaria sono
competitive. Mr. Evenett – che in
questo appuntamento presenta lo
stato dell’arte sugli studi più presti-
giosi relativi alla concorrenza dei
mercati emergenti – riporta una
ricerca realizzato dalla società Bcg
(Boston Consulting Group) tra il
2006 e il 2008, che ha l’obiettivo di
identificare i 100 giganti emergenti
– a vocazione globale-internazionale
– in qualità di “sfidanti” delle
imprese esistenti nelle economie
occidentali. Innanzitutto risulta che
34 “challengers” appartengono al
settore dei beni industriali, 17 a
quello estrattivo quale petrolio-gas,
14 producono beni di consumo
durevole, 14 cibo, bevande e cosmetici
e i restanti 21 altro (ad esempio
servizi bancari, finanziari). Le prime
tre nazionalità di appartenenza
sono Cina, India e Brasile e l’obiettivo
di divenire sempre più global,
per quasi tutto il campione, è quello
di avere accesso a nuova crescita e
profitto, grazie ai mercati esteri che
offrono opportunità di lungo-periodo
rispetto ai soli mercati domestici.
A questo punto il professore inglese
ribalta il punto di osservazione:
questi stessi giganti che riteniamo
una minaccia sono allo stesso
tempo una grande chance poiché
rappresentano potenziali clienti.
Bcg stima che nel 2007 (i nuovi dati
sono in uscita) i giganti abbiano
acquistato 500mila miliardi di dollari
suddivisi fra materie primeenergia,
parti e componenti e infine
servizi, mentre gli stessi acquisti in
R&S stanno cominciando ad
aumentare. La ricerca pone in luce,
infatti, un’altra tendenza: nel medio
e lungo periodo gran parte dei concorrenti
studiati lasceranno la strategia
“low cost” per assestarsi su
politiche di branding e di R&S. In
un paper della Harvard Business
Rev. (2006), Khanna e Palepu identificano
tre elementi alla base del
successo delle imprese emergenti
nell’assicurarsi profittabilità “a
casa”: il vantaggio di utilizzare la
conoscenza dei mercati locali per
offrire prodotti adeguati (esigenze
specifiche dei clienti domestici) e per
la ricerca di talenti e capitali, infine
la capacità di colmare, in qualità di
intermediari, vuoti istituzionali
legati a questioni legali e di informazione.
Mr. Evenett di nuovo mette in evidenza
come la stessa strategia – di
affermarsi prima sui mercati locali –
possa essere presa da esempio per le
imprese occidentali. Quali sono le
raccomandazioni chiave (anche alla
luce di altri studi citati di Kumar,
Bernard e Koete) che ci lascia l’economista
inglese? Innanzitutto, identificare
ogni aspetto della minaccia
competitiva da parte delle imprese
dei mercati emergenti (spesso non si
tratta del low cost). In secondo
luogo, approfittare del fatto che in
futuro queste imprese andranno
verso un maggiore valore aggiunto,
ma che ora non ci sono ancora arrivate.
Costatare, poi, come esistano
varie opportunità per le imprese
occidentali (la perdita di quote di
mercato, in altre parole, non è inevitabile).
Quindi, eliminare le opzioni
che sono attraenti solo in un’ottica
superficiale e, infine, valutare vie
alternative – prima menzionate –
attuando un’attenta pianificazione e
dedicando risorse ad hoc

L’ultimo ospite del ciclo dei seminari è
stato Robert Dilts, noto trainer internazionale
e consulente nell’ambito della
Programmazione neuro-linguistica Pnl presso
imprese quali Apple Computer, Hp, Ibm
ecc. Il concetto cardine su cui ha ruotato la
giornata è stato quello di leadership generativa,
ossia la capacità, da parte del leader, di
creare un mondo a cui le persone desiderano
appartenere. Nell’osservare e modellare
le organizzazioni di successo, Mr Dilts si
pone una domanda “incipit”: qual è la differenza
che fa la differenza? Successivamente
richiama l’attenzione sul tema del “fitness
per il futuro”, inteso qui come lo stato generale
di salute di un sistema e la sua capacità
di rispondere all’ambiente.
Alla base del fitness per il futuro troviamo la
capacità di adattamento e, come cornice
teorica – da cui partire per valutare la posizione
di un’impresa, ma anche di un essere
umano – un modello di cambiamento sistemico
(adaptive cycle) creato dall’ecologista
C.S. Holling. Il modello prevede quattro fasi
consequenziali: crescita-espansione (rapido
sfruttamento delle risorse); conservazione
(accumulo di risorse); collasso-distruzione
creativa (dovuta a intenso consumo o a
crisi); ri-organizzazione.
La leadership generativa richiede, a questo
proposito, una profonda e crescente consapevolezza
del ciclo adattivo sopra descritto,
per essere meglio preparati ad affrontare le
sfide e ad avvantaggiarsi delle opportunità.
Ma anche una ferrea disciplina, che può
essere articolata in cinque ulteriori regole,
identificate da Peter Senge (nel suo celebre
libro “Le cinque discipline”): primo, raggiungere
una propria abilità; secondo, sviluppare
maggior consapevolezza insieme a una valutazione
delle proprie mappe mentali e assunti;
terza “disciplina”, stare continuamente
nel processo di visione e creazione del futuro;
infine, incoraggiare l’apprendimento del
team e la sua intelligenza collettiva, fino a
sviluppare l’abilità del pensiero sistemico.
Mr Dilts ci ricorda anche la definizione di leadership,
ossia la capacità di esprimere una
visione, influenzare gli altri affinché raggiungano
risultati, incoraggiare la cooperazione
nel team ed essere un esempio. Questi elementi
trovano una buona corrispondenza
con le cinque discipline sopra citate. Come
possiamo porci allora di fronte a un problema
o a una sfida? Innanzitutto la logica
sistemica ci chiede di definire l’intero “spazio
del problema”, formato da elementi fisici e
non, quali relazioni, valori, percezioni e
assunti. Secondo, dobbiamo trovare uno
“spazio di soluzione”, usando altri tipi di
ragionamento rispetto a quelli che stanno
creando il problema (quest’ultimo è il gap fra
stato presente e stato futuro desiderato).
Il training operativo verso lo “spazio di soluzione”,
proposto da Mr Dilts, può essere sintetizzato
come segue: identificare in quale
ciclo ci troviamo, creare uno stato interno di
“coach” (centrato, aperto, consapevolevigile,
connesso, capace di “tenere”), esprimere
la visione su tre livelli (cognitivo,
“conosco la visione”, somatico, “la sento nel
corpo”, di campo, “la condivido e trasmetto
agli altri”), rimanendo ogni volta in uno
stato di coach. Quindi ulteriori step, che
andrebbero ancora descritti e approfonditi –
ha osservato Dilts – ma resta questa la base
da cui partire per “ampliare lo sguardo”.
Allo stesso tempo possono facilitare l’entrata
nello spazio di soluzione anche energie
“archetipiche” quali la forza (per fissare i
confini e restare coinvolti), la compassione
(per connetterci con gli altri in pienezza
emotiva) e lo humour (per trovare nuove
prospettive, essere creativi e fluidi). L’abilità,
trovandosi nella situazione reale di sfida, sarà
quella di utilizzare le tre energie in un mix
equilibrato, oltre a imporre a se stessi una
notevole disciplina quotidiana, fattore
comune a questo come a tutti i percorsi di
miglioramento.