TIMOTHY GARTON ASH La Repubblica 13.05.09
COSA vogliamo che venga fuori dalla più grave crisi del capitalismo da settant’anni a questa parte? Se dovessi condensare la risposta in un’espressione direi: nuovi modelli per un’economia di mercato sociale sostenibile.
MA bisogna che cambiamo noi e che cambino i nostri stati. Il capitalismo non finirà nel 2009, come finì il comunismo nel 1989. Ha radici troppo profonde, è troppo eterogeneo e troppo flessibile per patire una morte così improvvisa. Il capitalismo ha ben più varianti nel mondo di oggi di quante mai ne abbia avute il comunismo, e questa varietà è una delle sue forze. L’arcobaleno va dal selvaggio ovest al selvaggio est e si allarga a importanti varianti nazionali dell’economia di mercato, pensiamo alla Cina, che secondo i puristi non si identificano affatto con il capitalismo. Così certe versioni del capitalismo resisteranno alla tempesta, altre ne usciranno a pezzi o quanto meno trasformate in maniera assai sostanziale.
É probabile che a quest’ultima categoria appartenga l’estrema variante “neoliberale” dell’economia del libero mercato, caratterizzata non solo da una vasta deregulation e privatizzazione ma anche da un’etica alla Gordon Gekko, che esalta l’avidità, pienamente realizzata nella pratica solo in alcune aree delle economie anglosassoni e post-comuniste. Che ne direste invece di una versione modernizzata, riformata, della “economia di mercato sociale”, espressione coniata in Germania nel dopoguerra? Pur restando assolutamente un’economia di libero mercato, questo modello richiede da parte dello stato la creazione di un forte quadro giuridico e normativo per l’impresa privata, per il coinvolgimento dei portatori di interesse nonché degli azionisti, il tentativo di equilibrare riflessioni a lungo e breve termine in seno al processo decisionale economico, l’impegno nazionale a garantire un minimo sociale a tutti i cittadini e un forte ethos morale tra chi è coinvolto in attività finanziarie. A tutto ciò vanno associate le istanze di sostenibilità ambientale, a fronte del cambiamento climatico, e sostenibilità etica a fronte della povertà globale, tipiche del ventunesimo secolo. Impresa ardua, senza dubbio.
I grandi guadagni dei capitalisti vengono tradizionalmente giustificati in base al rischio che si assumono, ma in questo caso non l’hanno neppure assunto. Il rischio era sulle nostre spalle. Quando la bolla è scoppiata il conto è andato ai contribuenti e noi e i nostri figli lo pagheremo per decenni a venire. Vicino a dove abito io a Oxford hanno restaurato grandi dimore vittoriane senza badare a spese ad uso unifamiliare. Un anno fa le guardavo con sarcasmo e stupore, ma ingenuamente davo per scontato che i nuovi proprietari, si fossero guadagnati, nel vero senso della parola, quello stile di vita neo-aristocratico. Oggi le guardo con uno stato d’animo prossimo alla rabbia.
Un mio amico che ha passato la vita a studiare le economie più povere del mondo sostiene che la condotta folle ed egoista di quei banchieri dovrebbe avere a loro carico conseguenze legali. Dovrebbe esistere, dice, un reato bancario paragonabile all’omicidio colposo, nel senso che non sia necessario dimostrarne la premeditazione.
Splendida idea, ma non attuabile in pratica, credo, e in fin dei conti neppure auspicabile, in quanto violerebbe il fondamentale principio giuridico secondo cui costituisce reato solo un azione che era illegale nel momento in cui è stata commessa.
Credo però chei diretti responsabili, come Sir Fred Goodwin della Royal Bank of Scotland, dovrebbero restituire parte dei loro guadagni personali eccessivi e immeritati. E altri dovrebbero reimmettere nella società, fosse solo in forma filantropica, più di quanto realmente le hanno sottratto.
Ma non si può dar loro tutta la colpa. Parte della responsabilità ricade sui britannici e gli americani qualunque che hanno speso soldi che non avevano incoraggiati dall’impennata dei prezzi delle case, dai mutui facili e sedotti dalle pubblicità. Lo stesso, strano a dirsi, vale per i frugalissimi cinesi i cui ingenti risparmi sono stati riciclati per consentire - addirittura incoraggiare indirettamente - lo spreco occidentale.
Più di trent’anni fa Daniel Bell nel suo “Le contraddizioni culturali del capitalismo” indagò un paradosso: la dinamicità del capitalismo dipende dal fatto che gli individui improntano la loro vita personale di produttori e consumatori a valori in qualche modo diversi. Ampliando la famosa tesi di Max Weber circa l’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Bell sostiene che nel ruolo di produttori gli individui aderiscono a valori di riferimento come il duro lavoro, la puntualità, la disciplina e la disponibilità ad accettare una gratificazione differita. Nel ruolo di consumatori hanno un atteggiamento auto indulgente, espansivo, dedito alla ricerca del piacere e a vivere il presente. A questo aggiungiamo il nuovo paletto costituito dall’incapacità del pianeta di sostenere più di sei miliardi di persone con livelli di vita in costante crescita ottenuti tramite i metodi di produzione e consumo finora utilizzati. E complichiamo ulteriormente la questione introducendo la tesi morale secondo cui i ricchi non hanno il diritto di negare ai poveri del mondo una vita materiale migliore che equivarrebbe comunque a una minima parte dell’agiatezza di cui godiamo noi.
Ci ritroviamo di fronte non solo a un enigma che riguarda i sistemi ma anche a una sfida che coinvolge personalmente ciascuno di noi. Si tratta di trovare un nuovo equilibrio nella nostra doppia vita di produttori e consumatori, contribuendo al contempo in maniera consapevole ad un più ampio insieme di nuovi equilibri internazionali tra economia e ambiente, tra il risparmio esagerato dell’est e la spesa esagerata dell’ovest, la ricchezza del nord e la povertà del sud. L’economia di mercato sociale sostenibile nella mia accezione è anche questo. www.timothygartonash.com (traduzione di Emilia Benghi) TIMOTHY GARTON ASH
mercoledì 13 maggio 2009
Come costruire il capitalismo sociale
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Etichette: Etica ed economia
venerdì 7 novembre 2008
Se la vita diventa consumo Fonte Zygmunt Bauman - La Repubblica 07.11.08
Al giorno d´oggi la prassi manageriale di provocare un´atmosfera di urgenza o di presentare come stato di emergenza una situazione probabilmente normale è considerata un metodo molto efficace, spesso il metodo preferito, per persuadere chi viene gestito ad accettare tranquillamente anche cambiamenti drammatici che colpiscano al cuore le sue ambizioni e prospettive o il suo stesso stile di vita. «Dichiara lo stato di emergenza e continua a comandare», sembra essere la ricetta manageriale sempre più in voga per esercitare un dominio indiscusso e far passare gli attacchi più spiacevoli e devastanti al benessere dei dipendenti, o per liberarsi della forza-lavoro che non si vuol più tenere, lavoratori in esubero a causa delle operazioni di «razionalizzazione» o scorporo delle attività che si susseguono.
Forse nemmeno l´apprendimento e l´oblio sfuggono alle conseguenze della «tirannia del momento», favorita e istigata dal continuo stato di emergenza, e del tempo perso in una successione di «nuovi inizi» disparati e apparentemente (ma ingannevolmente) scollegati tra loro. La vita di consumo non può essere altro che una vita di apprendimento rapido, ma ha anche bisogno di essere una vita di oblio altrettanto rapido.
Dimenticare è importante come, se non più, che imparare. C´è un «non si può» per ogni «si deve», e quale di questi due aspetti riveli il vero obiettivo del ritmo vertiginoso di rinnovamento e rimozione, quale dei due sia invece solo una misura ausiliaria per assicurare che l´obiettivo sia raggiunto, è una questione cronicamente opinabile e irrisolta. (...)
Siamo di nuovo alla questione dell´uovo e della gallina... Devi «buttar via» il beige per preparare il viso a ricevere i nuovi, vivaci colori, oppure sono questi ultimi che stanno inondando il reparto cosmetici dei supermarket per garantire che le scorte inutilizzate di beige vengano effettivamente «buttate via, immediatamente»?
Molte delle donne che a milioni stanno buttando via il beige per riempire la borsetta di cosmetici a colori vivaci direbbero molto probabilmente che cestinare il beige è un effetto secondario, deprecabile ma inevitabile, del rinnovamento e miglioramento del make-up, un sacrificio triste ma necessario per stare al passo con il progresso. Ma tra le migliaia di direttori di negozio che stanno inviando ordini per il nuovo assortimento qualcuno ammetterebbe, in un momento di sincerità, che se gli scaffali dei cosmetici si sono riempiti di colori vivaci ciò è accaduto per la necessità di abbreviare la vita utile del beige, facendo in modo che il traffico nei grandi magazzini rimanga intenso, che l´economia continui ad andare avanti e che i profitti crescano.
Il Pil, indice ufficiale del benessere della nazione, non si misura forse dalla quantità di denaro che passa di mano? La crescita economica non è for-se alimentata dall´energia e dall´attività dei consumatori? E il consumatore che non si dà da fare per liberarsi di cose consumate o obsolete (o, meglio, di tutto ciò che rimane degli acquisti di ieri) è un ossimoro: come un vento che non soffi o un fiume che non scorra...
Sembra che entrambe le risposte di cui sopra siano giuste: esse sono complementari, non contraddittorie. In una società di consumatori e in un´era in cui la «politica della vita» sta sostituendo la Politica con la iniziale maiuscola un tempo ostentata con fierezza, il vero «ciclo economico», quello che veramente fa andare avanti l´economia, è il ciclo del «compra, godi e butta via». Che due risposte apparentemente contraddittorie possano essere entrambe giuste nello stesso tempo è precisamente la grande impresa compiuta dalla società dei consumatori: e, probabilmente, la chiave della sua stupefacente capacità di auto-riproduzione ed espansione.
La vita di un consumatore, la vita di consumo, non consiste nel l´acquisire e possedere. E non consiste nemmeno nel liberarsi di ciò che era stato acquisito l´altro ieri e orgogliosamente ostentato ieri. Consiste piuttosto, in primo luogo e soprattutto, nel rimanere in movimento.
Se aveva ragione Max Weber affermando che il principio etico della vita di produzione era (e doveva essere sempre, se lo scopo era una vita di produzione) il rinvio della gratificazione, allora la linea-guida etica della vita di consumo (se l´etica di una vita simile può essere presentata sotto forma di un codice di comportamento prescritto) dev´essere il rimanere insoddisfatti. (...)
Col passare del tempo, in effetti, non abbiamo più bisogno di essere spinti o trascinati per sentirci così e agire in base a questo sentire. Non è rimasto più niente da desiderare? Niente da inseguire? Niente da sognare sperando che al risveglio il sogno sia diventato realtà? Si è condannati ad accettare una volta per tutte ciò che si ha (e dunque, per procura, ciò che si è)? Non c´è più niente di nuovo e straordinario che si faccia strada verso il palcoscenico per ricevere attenzione, e niente, sulla stessa scena, da eliminare e di cui sbarazzarsi? Una situazione di questo tipo ? di breve durata, si spera ? si può chiamare solo con il suo nome: «noia». Gli incubi che ossessionano l´Homo consumens sono le cose, animate o inanimate, o le loro ombre ? i ricordi delle cose, animate o inanimate ? che minacciano di trattenersi più del dovuto e occupare la scena... (...)
L´economia dei consumi e il consumismo sono mantenuti in vita in quanto i bisogni di ieri sono sminuiti e svalutati, e i loro oggetti ridicolizzati e sfigurati come ormai obsoleti, e ancor più è l´idea stessa che la vita di consumo debba essere guidata dalla soddisfazione dei bisogni a essere screditata. Il trucco beige, che la scorsa stagione era segno di sicurezza, ormai è solo un colore che sta passando di moda, spento e brutto, e per giunta un marchio di disonore, segno di ignoranza, indolenza, inettitudine o complesso di inferiorità; l´atto che fino a poco tempo fa denotava generalmente ribellione e azzardo e confermava che si era «un passo avanti a chi fa tendenza» diventa ben presto sintomo di pigrizia o codardia («Non è trucco, è una coperta di sicurezza»), segno che ci si trova ormai in coda, che si è persino al verde...
Ricordiamoci del verdetto della cultura consumistica: gli individui che si accontentano di avere un insieme finito di bisogni, che agiscono solo in base a ciò di cui pensano di avere bisogno e non cercano mai nuovi bisogni che potrebbero suscitare un piacevole desiderio di soddisfazione sono consumatori difettosi, vale a dire il tipo di emarginati sociali specifici della società dei consumatori. La minaccia e la paura dell´ostracismo e dell´esclusione aleggiano anche su chi è soddisfatto dell´identità che possiede e su chi si accontenta di ciò che i suoi «altri che contano» lo portano a essere.
La cultura consumistica è contrassegnata dalla costante pressione a essere qualcun altro. I mercati dei beni di consumo sono imperniati sulla svalutazione delle loro precedenti offerte, in modo da creare nella domanda del pubblico uno spazio che sarà riempito dalle nuove offerte. Essi alimentano l´insoddisfazione nei confronti dei prodotti usati dai consumatori per soddisfare i propri bisogni, e coltivano un perenne scontento verso l´identità acquisita e verso l´insieme di bisogni attraverso i quali viene definita. Cambiare identità, liberarsi del passato e ricercare nuovi inizi, lottando per rinascere: tutto ciò viene incoraggiato da quella cultura come un dovere camuffato da privilegio.
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Etichette: Etica ed economia
Realizzazione personale come fattore di crescita
Nei Paesi di cultura anglosassone lo sanno da tempo, se il lavoratore è felice l’azienda è più competitiva. Non è dunque casuale che le imprese inglesi così come quelle del nord Europa siano particolarmente attente all’ascolto dei lavoratori ed alla creazione di un clima aziendale favorevole. In Italia, forse per la ridotta dimensione delle aziende e per un modello di sviluppo fortemente legato alla comunità locale, l’ambiente di lavoro è stato spesso considerato un aspetto secondario avulso dalle politiche aziendali e non un fattore di successo sul quale intervenire. Le trasformazioni economiche e sociali di questi anni hanno radicalmente cambiato questo scenario, oggi anche in Italia si fa strada la convinzione che la soddisfazione del lavoratore e l’ambiente in cui opera concorrono al successo dell’impresa.
Ma come si crea un clima aziendale favorevole?
Leggi tutto l'articolo & relativa intervista su Econerre Ottobre 2008, pag.25
http://www.rer.camcom.it/econerre/pdf/200810_econerre.pdf
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Etichette: Counseling e Lavoro
mercoledì 9 luglio 2008
L’intelligenza sistemica: una possibile cura per i mali del management
No. 88/2008 (http://www.ticonzero.info)
di Martina Montauti
Secondo l’economista indiano Sumantra Ghoshal il management è stato per troppo tempo
affetto da due mali: la pretesa di conoscenza e l’ideologia radicata in una concezione
pessimistica del comportamento umano. Una possibile soluzione a questi mali è il concetto di
“intelligenza sistemica”, sviluppato negli ultimi anni presso l’Helsinki University of
Technology. Attraverso una visione più completa degli esseri umani e uno studio dei fenomeni
di complessità organizzata che non prescinde dalle scienze sociali, l’intelligenza sistemica
rappresenta una valida alternativa alla moda del business “etico” e una possibile prospettiva
teorica per ripensare concretamente il management, sia dal punto di vista della formazione che
degli assetti organizzativi.
Martina Montauti
2
Poco prima di morire, l’economista indiano Sumantra Ghoshal pubblicò un articolo
dal titolo “Le cattive teorie manageriali ne stanno distruggendo le buone prassi”
invitando le comunità accademiche a “dare una nuova legittimità al pluralismo”,
ossia a ritrovare la matrice interdisciplinare delle teorie che sono alla base del
management. Tali teorie mutuano i loro concetti principali non soltanto da
matematica, statistica ed economia, ma anche dalla sociologia, dalla psicologia,
dalla storia.
1 – I mali del management: pretesa di conoscenza e ideologia
Questa necessità di revisione nasce dai numerosi scandali che, negli ultimi anni,
hanno coinvolto diverse aziende: l’esigenza di rinnovare la credibilità delle figure
manageriali, ha portato a fare dell’etica un nuovo vestito da indossare, ad uso e
consumo di corsi universitari sempre più numerosi e di un modo di fare business
sempre più “morale”.
Ma siamo sicuri che sia questa, la strada giusta da percorrere?
Sumantra Ghoshal identifica due principali cause del “cattivo” management:
1. Quella che il Nobel Friedrich Von Hayek chiamava “la pretesa di
conoscenza”;
2. Una visione parziale, basata per lo più sull’ideologia dominante
nell’Università di Chicago nelle ultime decadi del XX secolo.
L’economia, in quanto ramo delle scienze sociali, sembra aver dimenticato le sue
origini, assumendo come buone solo quelle teorie corroborate da modelli
matematici: il senso comune e l’etica sembrano essere stati per troppo tempo
sacrificati in nome di una sorta di senso di inferiorità nei confronti di discipline quali
ad esempio la fisica. Il punto, sottolinea Ghoshal, è che mentre le teorie della fisica
non influenzano gli effettivi accadimenti del mondo naturale (il fatto che prima di
Galileo si credesse che fosse il sole a ruotare intorno alla terra, non influiva
sull’effettiva rotazione della terra intorno al sole), le teorie economiche possono
influenzare i comportamenti di chi le studia e di chi le applica nella gestione di
un’azienda o nella vita al suo interno.
Le teorie che sono alla base del management, pretendendo di essere
elegantemente strutturate, stringenti, semplici, basate su assiomi verificabili, hanno
spesso ridotto quelli che Von Hayek chiama “fenomeni di complessità organizzata” a
verità inconfutabili, rappresentative in realtà di una visione parziale ed ideologica.
Ghoshal sostiene che la pretesa di conoscenza abbia portato nelle teorie
manageriali quel determinismo causale che nega un ruolo attivo alle scelte umane e
all’intenzionalità, mentre un’ideologia di matrice liberale ha portato a formulare
assunzioni pessimiste sulla natura umana e sulle stesse istituzioni. L’individualismo
sfrenato, l’uomo al centro del mondo e l’esasperazione dell’hobbesiano homo
homini lupus hanno trasformato le università in centri d’addestramento per future
giungle aziendali, nelle quali il coltello fra i denti e il fatalista business is business
hanno portato a quello che oggi riteniamo essere il contesto lavorativo.
Ghoshal ritiene che siano proprio le università a poter invertire la tendenza, perché
“se nulla è più pericoloso di una cattiva teoria”, soprattutto nelle scienze sociali,
“nulla è più pratico di una buona teoria”. Questo non implica che molte delle teorie
esistenti siano da buttare: desideri e speranze, sermoni e preghiere sono ancor più
pericolosi dei modelli matematici applicati arbitrariamente a fenomeni di
ticonzero No. 88/2008
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complessità organizzata. Sarebbe invece auspicabile un ritorno alla matrice
interdisciplinare dell’economia e del management, che usano i numeri per
circoscrivere dei problemi, senza dimenticare che questi possono essere studiati da
altre, molteplici prospettive debitrici di una dimensione razionale, ma anche
emotiva, dell’essere umano.
2 – Una cura possibile: l’intelligenza sistemica
Un approccio interessante ai fenomeni di complessità organizzata, chiamato
intelligenza sistemica, è stato formulato da Raimo P. Hämäläinen ed Esa Saarinen
(2004), professori all’Helsinki University of Technology.
“Con il concetto di Intelligenza Sistemica (IS), intendiamo un comportamento
intelligente all’interno di un sistema complesso che implica interazioni e feedback.
Una persona dotata di intelligenza sistemica interagisce, in modo ottimale e
produttivo, con quei meccanismi di feedback “olistici” che sono propri del suo
ambiente; si percepisce come parte di un intero, di cui comprende l’influenza su se
stessa, e percepisce la sua stessa influenza sull’intero. Dall’osservazione della sua
interdipendenza all’interno di un ambiente ad alto tasso di feedback, questa
persona è capace di agire con intelligenza.”
Mentre il pensiero sistemico rappresenta un modello mentale che può essere usato
in maniera strumentale, l’intelligenza sistemica è una caratteristica innata, che si
oppone ad una concezione pessimistica del comportamento umano e che
responsabilizza il singolo circa l’impatto delle sue azioni in situazioni e contesti
complessi.
Nel dare un’interpretazione al caso Enron, Matti Rantanen (2007) parla di un vero e
proprio “collasso sistemico” derivato dal prevalere delle convinzioni personali del
Presidente e Amministratore Delegato Ken Lay sul bene comune dell’azienda: in
sostanza l’essere dotati di intelligenza sistemica non vuol dire essere altruisti.
Spesso è per altruismo che, ad esempio, si cerca di mascherare l’errore di un
collega ma, a livello di sistema, questa scelta può avere un impatto negativo.
Inoltre, maggiori sono le responsabilità che si ricoprono all’interno di
un’organizzazione, maggiori potrebbero essere le ripercussioni derivanti da una
scelta sbagliata. Nel suo La saggezza della folla, il giornalista James Surowiecki
(2007) spiega come spesso siano proprio le decisioni collegiali a risultare più
vincenti di quelle individuali, per quanto queste ultime possano essere ponderate
razionalmente: ciò accade perché, “ovunque c’è un sistema, esiste la possibilità che
sia sempre più capace di arricchire, di ispirare, di dare vita a qualcosa.”
L’intelligenza sistemica, infatti, “si basa sul potenziale che appartiene ad ogni
singolo sistema”.
Il concetto di intelligenza sistemica si oppone all’individualismo di matrice liberale e
liberista che, secondo Ghoshal, ha influenzato molto le teorie formulate alla fine del
XX secolo nelle business school americane. Allo stesso tempo, esso rappresenta un
esempio di approccio accademico che non resta confinato in un’unica disciplina, rilegittimando
così quel pluralismo evocato dall’economista indiano. L’intelligenza
sistemica non è pessimista né fatalista, ma tende a responsabilizzare i singoli circa
il loro ruolo nelle organizzazioni, senza però fare appello a un’etica avulsa dal
sentire personale, perché dettata da un codice aziendale o dalla moda del
momento.
Martina Montauti
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Nel suo ultimo articolo Sumantra Ghoshal cita Amartya Sen (1998), secondo il
quale:
“Nel considerare la possibilità di una spiegazione prudente della condotta morale,
non dovremmo cadere nella trappola di presumere che l’assunzione del puro
interesse egoistico sia, in ogni senso, più elementare dell’assunzione di altri valori.
Le preoccupazioni morali o sociali possono essere altrettanto elementari”
3 – Prospettive per il management di domani
Una cura possibile per i mali del management identificati precedentemente
potrebbe dunque essere rappresentata dal concetto di intelligenza sistemica, la cui
applicazione pratica richiede un’azione davvero radicale che coinvolge sia il sistema
della formazione che l’assetto di una qualsiasi organizzazione. In sostanza non
basta aderire alle teorie della scuola di Helsinki come all’ennesima moda del
momento; occorrerebbe invece compiere uno sforzo ben più ampio , proponendo
interventi mirati a partire dai programmi di studio universitari.
L’intelligenza sistemica non può essere insegnata ma, essendo una caratteristica
innata, può essere “allenata” proprio come un qualsiasi muscolo del corpo; questo
potrebbe avvenire recuperando, sul piano della education, uno studio dell’economia
che ne conservi le caratteristiche interdisciplinari e che porti gli studenti a coltivare
il pensiero laterale, a considerare gli aspetti etici di situazioni per troppo tempo
ritenute solo funzionali al raggiungimento di un obiettivo, a comprendere lo spirito
di squadra non come una forma di buonismo aziendale ma come il catalizzatore di
un impegno individuale che porta a un risultato collettivo superiore.
Se da un lato, quindi, si potrebbe agire sulla formazione, dall’altro si potrebbe
lavorare sull’organizzazione, cercando di portare nel “piccolo” dell’azienda ciò che,
“in grande”, sta avvenendo a livello globale: l’affermarsi delle reti.
Trasformare gli organigrammi in reti e i dirigenti in supernodi, renderebbe
l’intelligenza sistemica qualcosa di più che un concetto, perché un contesto nel
quale non bisogna “salire” ma interagire diventa un posto nel quale è molto più
facile ritenersi parte di una collettività che emerge dalla connessione tra i singoli.
In un’organizzazione simile, per esempio, una dinamica comportamentale malata
sarebbe molto più evidente e sarebbe il sistema stesso che, non subendola dall’alto
ma essendo educata a riconoscerla al suo interno, potrebbe eliminarla o
riconfigurarla senza grossi sconvolgimenti (togliere una testa a un corpo non è
come togliere un nodo a una rete).
Il formare le persone in modo che abbiano diversi modi di guardare allo stesso
problema favorirebbe il dialogo e quindi, tornando a Surowiecki, la saggezza di una
folla che non è indistinta, ma interagisce in un contesto nel quale gli obiettivi sono
chiari e condivisi.
Il merito di Sumantra Ghoshal sta nell’aver lasciato, come in una sorta di
testamento, delle prospettive concrete perché quella del management non sia più
una pretesa di scienza, ma l’arte di gestire un modo nuovo di “fare insieme”; da
questo punto di vista l’idea di “sistema”, nel quale sviluppare la propria sensibilità
ed intelligenza a favore di un’intelligenza e di una sensibilità collettive, appare
centrale: nell’azienda, come anche nella società.
È infatti frutto di una visione sistemica quella importante connessione tra università
e organizzazioni che Ghoshal ricorda più volte e che un economista del calibro di
Richard K. Lester, Direttore dell’Industrial Performance Center al Massachussets
Institute of Technology, auspica per il rilancio delle economie locali in un contesto
globale.
ticonzero No. 88/2008
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La capacità di costruire reti di persone, di istituzioni, di aziende stesse, all’interno
delle quali coltivare quella capacità innata che è l’intelligenza sistemica, è forse la
sfida più grande che il management dovrà affrontare per curare i suoi stessi mali:
la preoccupazione “morale e sociale” di voler essere migliori può essere considerata
prioritaria, se non anche propedeutica, a quella opportunistica dell’avere successo?
BIBLIOGRAFIA
GHOSHAL S. 2005. Bad Management Theories are Destroying Good Management
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HÄMÄLÄINEN R.P. AND SAARINEN E. 2005. Systems Intelligence Workshop at MIT, 5
December
HAYEK F.A. VON. 1974. The pretence of knowledge. Lecture in the memory of Alfred
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HOBBES T. 2001 Leviatano. Bompiani, Milano
LESTER, R.K. 2005. Universities, Innovation and the Competitiveness of Local
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Massachussets Institute of Technology IPC Working Papers Series, MIT-IPC-05-
010 (ALSO MIT-LIS-05-005)
LEWIN, K. 1945. The research centre for group dynamics at Massachussets Institute
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RANTANEN M. 2007. Reasons of Systemic Collapse in Enron. In Hämäläinen R.P and
Saarinen E. System Intelligence in Leadership and Everyday Life. System
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SAARINEN E. AND HÄMÄLÄINEN R.P. 2004. Systems Intelligence - Discovering a hidden
competence in human action and organizational life. Helsinki University of
Technology Systems Analysis Laboratory Research Reports A88
SEN A. 1998. Foreword. In A. Ben Ner & L. Putternam (Eds.), Economics, values and
organisation:xii. Cambridge: Cambridge University Press
SUROWIECKI J. 2007. La Saggezza della Folla. Fusi Orari
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Etichette: Economia
martedì 3 giugno 2008
Zagrebelsky: La democrazia ha ancora bisogno di maestri (La Repubb/26maggio 08)
di G. Zagrebelsky
In questo nostro tempo, dove sono i maestri e chi, nella vita civile, userebbe questa parola senza almeno una punta d’ironia, se non anche di dileggio? Maître sopravvive senza discredito in francese, nel settore culinario, alberghiero e forense, mentre il femminile, maîtresse, sembra un residuo di romanzo ottocentesco. Il maître de conférence è semplicemente un aiutante del professore che svolge quelle che noi avremmo definito un tempo “esercitazioni”, prima di diventare agrégé. Ma chi si lascerebbe oggi definire impunemente maître à penser, espressione che suona pretenziosa e gonfia, allo stesso modo di “maestro di vita”? Meister, che richiama tempi andati di corti principesche e domestici alle dipendenze (i Kappelmeister), oppure gilde e congreghe medievali (i Meistersinger wagneriani, ad esempio), è da tempo fuori uso, come lo sono i mondi cui allude.
Il “gran maestro” delle logge massoniche o degli ordini cavallereschi appartiene a piccole cerchie iniziatiche e, da queste, non esce facilmente all’aria aperta.
I tempi sono cambiati. Il “magister” che insegnava nelle aule universitarie è diventato il professore, un termine di per sé maestoso, ma ormai totalmente volgarizzato come equivalente a insegnante. Residua il maestro elementare, con l’iniziale minuscola, e questa sopravvivenza meriterebbe un esame, prima che una qualche circolare ministeriale lo faccia sparire, sostituendolo con “operatore” di qualche cosa. In generale, però, possiamo dire che i maestri si sono ritirati dalla vita civile pubblica. Se vi faranno ritorno, sarà perché saremo entrati in un’epoca diversa dalla nostra e perché avremo fatto un ripensamento su noi stessi.
George Steiner, nei saggi raccolti sotto il titolo La lezione dei maestri (Garzanti, 2004) ha messo in guardia circa i pericoli che questa parola, il maestro - monumentale, gerarchica, prescrittiva - porta in sé. Il pericolo maggiore consiste nel viluppo del rapporto maestro-discepolo in vischiosità sentimentali. Il desiderio del maestro di piacere al discepolo, di “sedurlo” con la sua personalità, un desiderio che può portare allo schiacciamento di quella di quest’ultimo; il desiderio del discepolo, a sua volta, di primeggiare, di essere il più vicino al suo cuore, di oscurare o annullare tutti gli altri. (…)
Le degenerazioni dei rapporti interni alle “scuole”, che possono portare ad altrimenti impensabili meschinità, sono ben note. Il mondo accademico ne è una miniera. Ne traggo solo un piccolo esempio, dal mio campo di studi. Il grande giurista Hans Kelsen, nella sua Autobiografia (in Scritti autobiografici, a cura di M. G. Losano, Diabasis, 2008) riferisce del suo incontro a Heidelberg con Georg Jellinek, certo uno dei massimi “maestri” del diritto pubblico a cavallo tra il XIX e il XX secolo e lo racconta così: Jellinek “era circondato da un impenetrabile gruppo di allievi adoranti, che lusingavano in modo incredibile la sua vanità. Ricordo ancora la relazione di uno dei suoi studenti preferiti, costituita quasi esclusivamente da citazioni degli scritti dello stesso Jellinek. Dopo quella riunione potei accompagnare Jellinek a casa e, cammin facendo, mi chiese che cosa ne pensavo di quella relazione. Io rimasi molto sulle mie e Jellinek ne fu visibilmente irritato. Affermò che era stata una relazione eccellente e predisse un grande futuro accademico al suo autore: ma questi – aggiunge Kelsen maliziosamente - nel corso della sua carriera accademica, ha prodotto soltanto pochi scritti mediocri”.
Ecco un rischio di questo rapporto malato, la mediocrità all’ombra della megalomania. Quello citato è solo un piccolo episodio di miseria accademica. Ma, spostandoci ad altro campo, il campo del magistero politico, il quadro, da ridicolo può farsi tragico. Il rapporto fideistico col maestro, depositario di una verità ch’egli solo conosce, può condurre a tragedie che annullano la personalità dei deboli e conducono perfino all´omicidio. (…)
La radice di queste degenerazioni sta nel rapporto meramente bilaterale tra il maestro e il discepolo. Se non è filtrato, reso oggettivo da un terzo fattore comune, esso finisce per ridursi a una relazione personale ineguale di fedeltà, in cui tutte le deviazioni irrazionalistiche diventano possibili, e, soprattutto, si viene perdendo di vista il fine in vista del quale tale rapporto ha ragione di instaurarsi: la ricerca di qualcosa che sta fuori tanto del maestro quanto del discepolo. Se manca questo elemento, la persona del maestro diventa l’oggetto dell’attaccamento del discepolo e la persona del discepolo diventa l’oggetto dell’attenzione del maestro. L’amore della verità – usiamo questa parola con la minuscola – viene a essere sostituito dall’autocompiacimento dell’uno attraverso l’altro, cioè da manifestazioni di narcisismo. (…)
Il maestro è ridicolmente anacronistico. Sembra non essercene bisogno, sembra anzi un ingombro nella società egualitaria dei grandi numeri, propria del nostro tempo, che propone bensì modelli di successo, ma, per così dire, di successo applicativo, non creativo. La via del perfezionamento personale, della conoscenza, della sperimentazione e della consapevolezza, e quindi anche della critica e della ribellione, la via che indicano i Maestri, non è confacente a questa società. (…)
Questa società non ha dunque bisogno di maestri. Sono pateticamente inutili. I mezzi attraverso cui si trasmettono conoscenze e si formano coscienze si chiamano maestra-televisione, maestra-pubblicità, maestra-comunicazione, maestra-moda, ecc. Queste sì sono maestre ugualitarie, stanno sul nostro stesso piano, usano il nostro stesso linguaggio, si prestano a essere comprese da tutti senza sforzi, sono adatte alla società dei grandi numeri, sono perciò pienamente democratiche. Che c´è di meglio? (…)
E invece no. Le cose non stanno affatto così. Non si tratta di aristocrazia contro democrazia, ma di due concezioni della democrazia, l’una in opposizione all’altra. L’una, la potremmo definire democrazia critica; l’altra, acritica. La democrazia critica pone se stessa sempre necessariamente in discussione, non è mai paga e tronfia, sa riconoscere i suoi limiti e sa correggere i suoi sbagli. È un sistema capace di auto-correzione, in vista di un bene o di una verità non assoluti ma relativi al momento e alle condizioni date e alle capacità ch’esso ha di padroneggiarle. Il suo senso è dato da questa tensione, tra ciò che si è e ciò che, in meglio, si potrebbe essere; il suo ethos, la molla che lo mette in movimento, è l’esigenza di colmare questa distanza.
La democrazia critica non assume, come sua massima, il detto vox populi, vox dei, per l’implicita supposizione di infallibilità ch’essa comporta. Considera un cedimento a un’inaccettabile ideologia della democrazia anche l’espressione, spesso ripetuta con leggerezza, secondo cui la maggioranza ha sempre ragione, e ciò non perché la maggioranza abbia presumibilmente torto, come ritiene ogni pensiero antidemocratico ed elitario che divide la società in migliori (i pochi) e peggiori (i tanti), ma perché semplicemente, nella democrazia critica è bandito il concetto stesso di ragione, contrapposto a torto. La maggioranza non ha né ragione né torto; ha invece diritto di decidere perché si ritiene che le decisioni che riguardano tutti siano assunte, se non da tutti, almeno dal maggior numero. È una questione di distribuzione e assunzione di responsabilità, non di ragione o di torto.
Questo modo di concepire la democrazia comporta la capacità di estraniarci da noi stessi, di uscire dalla nostra pelle per poterci osservare per quello che siamo e confrontarci con quello che non siamo e vorremmo essere. Essere al tempo stesso soggetto e oggetto, cioè la coscienza di se stessi, è forse ciò che di più difficile possiamo immaginare, nella vita individuale e, a maggior ragione, in quella collettiva. Quando si dice “la lezione dei maestri”, si dice innanzitutto distanza tra noi, come soggetti, e noi, come oggetti, cioè coscienza critica. La funzione del maestro, nella democrazia critica, non è un lusso, è una necessità vitale.
Tutto il contrario, nella democrazia acritica. Se la maggioranza ha sempre ragione, se la sua volontà è infallibile come quella divina, la voce ammonitrice del maestro è semplicemente un inutile fastidio, come quella del grillo parlante che Pinocchio, che non vuol sentir parola, schiaccia con un colpo di martello. Non c’è bisogno di maestri in questa democrazia, ma di ideologi, di comunicatori, di propagandisti o di pubblicitari, cioè di quelle false maestre (televisione, pubblicità, moda, ecc.) di cui s’è detto. Esse non creano tensione, allontanano da noi l’inquietudine del dubbio, ci fanno credere che ciò che siamo sia anche ciò che non possiamo non essere, che dove siamo non possiamo non essere. Ci fanno stare in pace con noi stessi, perché ci privano della coscienza di noi stessi e ci trasformano da soggetti in oggetti.
I maestri non esistono se non ci sono discepoli. Non sono i maestri a creare i discepoli, ma i discepoli a creare i maestri. Quando tra noi, potenziali discepoli, incominciano a porsi domande di senso ed esigenze di ethos, allora possono comparire i maestri. Questo – porre domande inevase e far valere esigenze insoddisfatte - è il compito di chi crede che valga la pena di impegnarsi per una democrazia con gli occhi aperti su se stessa e sul suo futuro, cioè per una forma di convivenza che coltivi l’inquietudine non come un vizio, ma come una virtù.
Abbiamo di fronte a noi degrado della vita pubblica, deterioramento della democrazia, inquietudine senza sbocco per l’avvenire e incapacità generalizzata di indicare prospettive diverse dal tirare in qualche modo a campare per allontanare soltanto il momento di una crisi che, non possiamo non saperlo, prima o poi verrà. In quel momento, la presenza o l’assenza di un magistero civile
Pubblicato da Barbara Costantini alle 05:58 0 commenti
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Tito Boeri. A che punto è l'economia in Italia
...anche secondo il mio sussurrato parere, la via della consapevolezza inizia con il porsi domande, soprattutto da parte di chi ricopre ruoli "decisionali"....il viaggio è il viaggiatore, anche economico...
Pubblicato da Barbara Costantini alle 05:50 0 commenti
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JOHN LLOYD: IL MERCATO È INDISPENSABILE ALL’INFORMAZIONE MA L’INFORMAZIONE È INDISPENSABILE ALLA DEMOCRAZIA
02/06/2008
L’editorialista del Financial Times introdotto da Dario Laruffa - Festival Economia 2008
Lasciare decidere ai lettori può significare dare la priorità alle ricette di cucina. Internet non può sostituire il giornalismo qualificato.
Il mercato è indispensabile all’informazione, anche perché l’informazione nasce con il mercato. Però ci sono dei problemi, che riguardano i giornalisti e nell’era di internet, della pay-tv, della free press, o più banalmente dell’audience anche tutti i cittadini: pensiamo ai produttori “informali” di informazioni, che mettono i loro video on-line, o ai lettori e telespettatori che con le loro scelte quotidiane decidono in sostanza dello spazio che le testate dedicheranno ad Hezbollah e ai terremoti oppure alle ricette di cucina e al gossip. Queste alcune delle suggestioni raccolte stamani nel corso dell’incontro con John Lloyd, giornalista, editorialista del Financial Times, per molti anni corrispondente a Mosca, introdotto da un volto noto del Festival dell’Economia, il giornalista Rai Dario Laruffa.
Ed è stato proprio Laruffa, in apertura, a dare i dati aggiornati sul mercato dell’informazione in Italia. Innanzitutto: nonostante internet e le tv tematiche la televisione generalista “tiene”, eccome, la guardano l’85% degli italiani per almeno 4 ore al giorno. Neanche la radio se la passa male: l’ascoltano quotidianamente 38 milioni di italiani. Almeno il 42% della popolazione ha invece accesso ad internet, e secondo dati recentissimi questa percentuale avrebbe ormai superato il 50%; rimaniamo però al di sotto della media europea. A passarsela meno bene sono i giornali, ma anche qui con qualche distinguo: gli acquirenti sono 5,5 milioni al giorno, con un calo del 10% negli ultimi 7 anni (e una situazione disastrosa soprattutto al Sud). Ma al tempo stesso il 79% degli italiani sopra i 14 anni dice di leggere un quotidiano, a pagamento o su internet: ovvio pensare che il giornale passi di mano in mano, che per ogni copia venduta ci siano più lettori. A leggere poco i giornali quotidiani sono soprattutto i giovani - c’è una calo del 4% nella fascia fra i 18 e i 24 anni – e le donne, -20% di lettrici rispetto agli uomini: ma le lettrici compensano con i periodici.
In definitiva, quindi, per Laruffa oggi è possibile essere informati: semplicemente, molti non gradiscono esserlo.
John Lloyd – australiano di origine - ha iniziato la sua relazione dicendo di essere felice di essere in Italia il giorno della Repubblica: “Noi non abbiamo questa festa – ha aggiunto – perché non siamo una Repubblica (l’Australia è una monarchia costituzionale federale con a capo la regina d’Inghilterra ndr)”.
Venendo al tema del giorno, Lloyd ha detto non solo che se il giornalismo è libero allora anche il paese tende ad essere libero, ma che il mercato e la competizione, secondo i padri del pensiero liberale, come John Stuart Mills, fanno bene alla verità, perché laddove si confrontano due tesi, una vera e l’altra falsa, alla fine la prima prevale. Thomas Jefferson disse addirittura che avrebbe preferito farsi governare dai giornali che da un governo: era l’epoca in cui gli Stati Uniti cercavano di liberarsi dal giogo coloniale britannico, gli organi di informazione, di qualsiasi specie essi fossero, venivano visti come una fonte indispensabile di libertà e di democrazia.
Storicamente, ha aggiunto ancora Lloyd, pare che il giornalismo sia nato nella Venezia della fine del XVI secolo: e Venezia all’epoca era “il mercato del mondo” per eccellenza. Come dubitare quindi dell’importanza del mercato in questo campo?
In realtà, però, oggi si sono dei problemi. Innanzitutto, il ruolo del pubblico, dei lettori, perché è evidente che un giornalismo fondato sul mercato non possa prescindere dal gradimento che esso riscuote (e quindi dalle vendite). Ma le ultime esperienze di free press (stampa distribuita gratuitamente), che a loro volta si basano moltissimo su questo fattore, a volte anche con rilevazioni periodiche del gradimento dei lettori rispetto alle diverse notizie pubblicate, cosa ci mostrano? Che in realtà i lettori vogliono soprattutto ricette di cucina e annunci immobiliari, non notizie sul conflitto mediorientale o sulle catastrofi che si abbattono in aree remote del pianeta. Di conseguenza, anche le più prestigiose testate generaliste oggi entrano in crisi, chiudono le sedi estere, insomma perdono terreno; oppure si orientano verso settori – come gli annunci commerciali – che poco hanno a che fare con l’informazione così come la pensava Thomas Jefferson.
Ci sono però vari modi per non soggiacere alla legge del mercato e dei grandi numeri. Alcune volte la soluzione è rappresentata dalla stessa proprietà: che magari realizza utili in settori lontanissimi da quello dei media, ma decide comunque di continuare a pubblicare un giornale perché dà prestigio, salvo magari a cambiarne la natura, come fece Murdoch con il Times di Londra, trasformandolo da giornale dell’establishment a giornale dell’anti-establishment.
Ci sono poi altre strade: in Svezia, dove il mercato di per sé sarebbe troppo ristretto per consentire la sopravvivenza di testate di qualità, c’è una fondazione che pensa a questo. Negli Usa invece vi sono fondazioni che sostengono le università che formano i futuri giornalisti.
Venendo alle televisioni in particolare, di solito lo Stato ha sempre cercato di disciplinarne il mercato: la logica è che di emittenti ce n’erano poche, rispetto ad esempio ai giornali. Ma oggi le tv vanno anche su internet, e nei giornali trovi spesso allegati gli stessi film che passano le televisioni. Ha ancora senso, allora, un controllo pubblico? E se sì, in quali termini? Ed ancora: con internet gli stessi lettori sono diventati informatori. Lo si è visto nella recente catastrofe birmana: foto e informazioni sul ciclone e le sue vittime hanno scavalcato la censura del regime e sono dilagate nel mondo. Un problema – secondo Lloyd - è dato dal fatto che sempre di più l’interesse del pubblico si sposta dalla pura informazione al commento. E poi, chi si fa garante dell’enorme molle di informazioni o di opinioni che “navigano” a briglia scolta nell’oceano mediatico, se a monte non c’è un’azienda vera e propria – un giornale, una tv – che vaglia e decide? Come trasferire l’etica del servizio pubblico in internet?
Molti interrogativi rimangono aperti, dunque. Ma in definitiva l’importante è continuare a pensare che il giornalismo è una parte essenziale della democrazia.
Pubblicato da Barbara Costantini alle 05:35 0 commenti
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